Qualche parola fredda sulla gioia obamista
Fosse un innamoramento autentico, quello degli obamisti italiani per il primo presidente afroamericano si dovrebbe rubricarlo al di sopra del bene e del male. Invece trattasi di cotta viscerale combinata con una fredda passione per il marchio commerciale che Barack Obama già da sempre rappresenta. La loro è una cotta tutta idealistica, a bassa intensità politica contagia sinistra e destra senza troppa sofisticazione e ad alta gradazione irrazionale.
L’obamista italiano non è un Black panther come Silvia Baraldini che ieri su Liberazione ha subito indovinato la debolezza antirivoluzionaria di questa ubriacatura né partecipa direttamente al grande fenomeno di mobilitazione razziale che ha fatto da combustibile all’elezione dal basso del presidente afrodemocrat. L’obamista italiano non indaga il nesso logico che collega l’obsolescenza psicomotoria del modello politico (e umano) impersonato da McCain e l’ascesa del perfetto e inesorabile meticcio cui l’estahlishment statunitense ha deciso di consegnarsi con la solidarietà spontanea dei colored. In breve: l’obamiano tricolore è un idealista che s’è invaghito della percezione elettoralistica del proprio eroe. Perché coltiva un’immagine di Obama che è al tempo stesso un logo pubblicitario generazionale, un prodotto di mercato e un dagherrotipo fisso che si rispecchia in una razza dell’anima: non è tanto l’Obama della Casa Bianca, quanto l’Obama che è dentro ciascuno di noi, il reale oggetto di questa devozione. Nulla di più universale, prelogico, riconoscibile, smerciabile, assimilabile in un consumo di massa come in una playlist dell’iPod. Questa cotta è stata descritta in forma partecipata e personale dal nostro Luca Sofri sull’Unità di ieri, in un articolo che vibrava di sensualità politica. Titolo perspicuo: Trentenni una gioia storica . Lo svolgimento andava in scena in un’ambientazione caratteristica (o location, come direbbero gli obamisti compiuti), vale a dire l’interno notte che raccoglie un gruppo di amici poco pi giovani di me, tra i trenta e i quarant’anni , in attesa che l’alba astronomica porti con sé la vittoria di Obama. Dopodiché abbracci e brindisi, un disciogliersi nel lago delle emozioni cieche e dell’orgoglio di gruppo. La cosa più bella capitata al nostro mondo dal 1989 . Ecco la frase totemica, il richiamo ai centri più bassi dell’io collettivo sotto forma di appropriazione: Gli osservatori più anziani la possono paragonare a quando videro cadere il muro, ma questa non è più roba loro . E’ roba da obamiani, interpreti di un idealismo modernissimo nel quale hanno investito tutte le loro vergini speranze .
Una cosa da almanacco di psicopolitica? Soltanto in apparenza, giacché necessita addirittura di un nuovo linguaggio per essere ben rappresentata. Gli idealisti obamiani sempre secondo Luca Sofri sono riconoscibili dal modo di soffrire sui blog e di esultare via email tutti insieme dai quattro angoli del mondo. Sono felici perché questa è una cosa che sentono infine dentro il loro tempo, una cosa che è come loro. Il mondo di fuori adesso assomiglia al loro mondo, la vita del mondo alle loro vite, non sono più controcorrente . Il senso del tempo, la forza della corrente, la corrispondenza interno-esterno, l’ultra alfabetismo tecnologico, la percezione di un’esclusività ai limiti del comunicabile. Ecco i segnacoli della cotta viscerale, della febbre a 9O (come per tanti piccoli Niek Ilornhy, scrittore cult-pop britannico). In effetti è un fenomeno anche molto veltroniano e il segretario del Partito democratico non ha torto nel rivendicare a sé la primogenitura nella creazione di certi stati d’animo. Lui è un politico di professione e quindi ha pure il dovere di condensare le pulsioni idealistiche in un poco di consenso palpabile. E’ ci che azzardava l’altra sera in televisione davanti a un altro obamiano tecnologico come Gianni Riotta, il direttore del Tg1. Ma W. non ha tutte le ragioni quando trasecola al cospetto degli obamiani di destra e vorrebbe timbrarne il certifica to di espulsione dal club idealista. Non ha ragione giacché anche gli alemanniani irrequieti della rivista Area, o gli aspiranti commensali del Secolo d’italia situazionisti autoproclamati per assenza di alternative lessicali, ma veltroniani di destra per vocazione appartengono al sillabario di questo obamismo immaginifico. Loro lo chiamano uscita dagli schemi , lo impreziosiscono come abbattimento degli steccati , lo celebrano in nome d’una consentaneità precisa rispetto all’astuzia meticcia della storia. Male che vada gli idealisti di destra si spingono lungo il confine della propria rimozione e salutano nell’America di Obama il vincitore che scenderà a patti coi vinti del Novecento totalitario. Meno pistole fumanti e più Bruce Springsteen. Cosa c’è di differente dall’albagia dei cugini dell’Unità? La pace universale per decreto e il cinema a prezzi popolari, la pedagogia dell’emotivamente corretto e il concerto etno-chic. In questo gioco di astrattezza e di evasione dalla realtà c’è perfino qualcosa d’inoffensivo, sopratutto se paragonato all’allarme dei giardinieri dell’apocalisse convinti (sempre da destra) che la narrazione di Obama bin Laden sia un assaggio del califfato. Ma se gli antiobamisti sono prigionieri di una cattiva digestione politica, agli idealisti fa difetto il senso del tragico. La negritudine, per loro, sarà un atout pubblicitario, la nuova arma di seduzione di massa per ravvivare il fuoco della mia generazione . Un altro feticcio sentimentale dietro il quale palpita l’ansia di autopromozione (pure legittima).
Dove condurrà questa pennichella della ragione è difficile dirlo. Non ci sono mostri in arrivo, forse mostriciattoli e comunque nulla di paragonabile al passato. Al limite l’abbaglio finirà per distogliere gli idealisti da alcuni interrogativi. Per esempio questo, com’è che gli Stati Uniti archiviano la profondità della Right Nation per immergersi in altri budelli e affidarsi alla riserva energetica dell’Afroamerica? E come si concilia tutto questo con la vittoria di un leader ancora bianco rispetto ai negri e già molto negro per i bianchi, che ha trionfato rinunciando a ogni connotazione razziale e accogliendo i finanziamenti di Microsoft, Google e Ibm (più Goldman Sachs e JPMorgan)? L’idealista in preda alla cotta obamiana ovviamente non esprime nulla di predicatorio, nessun istinto biologico di razza, per dentro il bassoventre internettiano che finanzia Obama riconoscerà senz’altro quel demi monde cinicamente apolide che sta a metà tra una pantera nera e il primo afroamericano della Casa Bianca. E che proprio in questa terra di mezzo prospera e sogna.
(Tratto da Il Foglio del 7 novembre)