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Le iniziative sulla riduzione del  numero dei parlamentari e sul referendum propositivo riguardano specifici istituti essendosi al momento abbandonata la strada delle grandi riforme dopo gli insuccessi del 2006 e del 2016.

  1. Le proposte intese alla riduzione del numero dei parlamentari non sono una novità nel dibattito politico. Se ne discute da una quarantina di anni. Negli anni ottanta se ne occupò la “Commissione Bozzi”, che però non formalizzò una propria proposta. Analogo scenario negli anni novanta per la “Commissione De Mita-Iotti”. Fallì anche la Bicamerale presieduta nel 1997 da D’Alema. Nemmeno si concretizzò due legislature fa la proposta del Senato di arrivare a 508 deputati e 250 senatori. Il disegno di legge costituzionale Renzi- Boschi non toccava solo il tasto della riduzione del numero ma sconvolgeva ad un tempo i criteri di selezione di Camera e Senato. Anche questo disegno è tramontato come ben noto.

La riduzione del numero di deputati e senatori a  prima vista non sembrerebbe in alcun modo incidere su altri profili strutturali nonché sui profili funzionali di entrambi i rami del Parlamento. Ma in realtà resta il dubbio che si avrebbero sicuramente ripercussioni sul lavoro delle due assemblee e non soltanto quelle positive in tema di riduzione degli oneri di funzionamento delle due camere. Conseguenze si avrebbero sulla funzionalità dell’apparato parlamentare (meno parlamentari agevolerebbero o complicherebbero l’iter dei procedimenti?) e sullo spazio riservato ai gruppi dei partiti con minori aderenti (La riduzione dei parlamentari graverebbe maggiormente sui piccoli partiti mentre i più consistenti avrebbero comunque la possibilità di essere presenti in tutte le commissioni. Inoltre mentre un numero di parlamentari consistente tende a garantire l’equilibrio della proporzionalità tra regioni grandi e piccole: una forte riduzione  porterebbe le regioni  con meno abitanti, a vedere calare notevolmente la loro già ridotta rappresentanza parlamentare).

A prima vista credo che la sola riduzione del numero dei parlamentari nella stessa proporzione del 36,5% per ciascun ramo del Parlamento e non accompagnata da alcuna modificazione dell’attuale costruzione  del  bicameralismo perfetto come pure delle funzioni delle stesse Camere, non offra la certezza di ottenere un risultato vantaggioso valorizzando il ruolo dell’istituzione parlamentare. La riduzione del numero dei parlamentari comporterebbe, è vero, non indifferenti riduzioni di spesa, ma è evidente che ciò non influirebbe sul ruolo del Parlamento. Il discorso potrebbe drammaticamente  cambiare se si desse seguito a quanto si legge nel Contratto per il Governo del cambiamento sulla necessità di “introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per contrastare il crescente fenomeno del trasformismo”. Ma questo indirizzo pare al momento accantonato.

  1. Ben più innovativo – passando alle proposte di legge costituzionale riguardanti articoli della Costituzione in tema di iniziativa legislativa popolare e di referendum – risulta il contenuto della proposta della maggioranza parlamentare in tema di “Modifica dell’articolo 71 della Costituzione in materia di iniziativa popolare”. Una iniziativa legislativa popolare presentata da almeno cinquecentomila elettori e non approvata dal Parlamento entro diciotto mesi dalla sua presentazione potrebbe, previo giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale, essere portata al voto popolare. La proposta di iniziativa popolare suffragata dalla maggioranza dei voti validamente espressi o, in caso di contemporanea presentazione di una diversa proposta delle Camere, quella delle due proposte che ottenesse il maggior numero di voti sarebbe approvata. Si introdurrebbe quindi un vero e proprio referendum propositivo. Sempre in tema di democrazia diretta altre proposte della maggioranza riguardano il referendum abrogativo, con particolare riferimento alla soppressione del quorum strutturale per la validità della votazione.

Come è risaputo il referendum propositivo non rappresenta del tutto una novità. Di referendum propositivo si era parlato  nella naufragata  “Bicamerale D’Alema”, istituita nella XIII legislatura. Qui si prevedeva un referendum esperibile qualora su una proposta di legge ordinaria (con esclusione delle leggi tributarie, di bilancio e di amnistia e di indulto), presentata da almeno ottocentomila elettori, le Camere non avessero deliberato entro due anni dalla presentazione. Una articolata tipologia di referendum propositivi è offerta nell’ambito di ordinamenti federali. Gli esempi di maggior rilievo sono previsti nelle Costituzioni dei Cantoni svizzeri consistenti nella possibilità per i cittadini elettori di pronunciarsi – attraverso particolari modalità – su progetti di legge da loro stessi presentati. Si ricorda anche la c.d. iniziativa legislativa popolare “formulata” – prevista dalla Costituzione di Weimar del 1919 – consistente nella sottoposizione al voto popolare di un dettagliato progetto legislativo di iniziativa popolare, qualora non fosse stato accolto senza modificazioni dal Reichstag. Analoghi istituti si hanno nelle costituzioni dei Länder dell’odierna Repubblica federale e in diversi Stati membri degli Usa.

A parte eventuali excursus comparatistici, la domanda da farsi oggi riguarda la opportunità di una modifica costituzionale orientata nel senso voluto dalla maggioranza.

Ipocritamente le proposte relative alla riduzione dei parlamentari e quelle interessanti il referendum propositivo vengono portate avanti insieme, in quanto secondo la maggioranza si intenderebbe soddisfare l’obiettivo di una “realizzazione del circuito virtuoso tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa” dal momento che “il Parlamento non sarebbe affatto escluso dalla nuova procedura di democrazia diretta e, anzi, potrebbe uscirne rafforzato”  ( sic). Giungere alla conclusione che, con la “rivitalizzazione” dell’iniziativa popolare per il possibile seguito referendario si potrebbe addivenire ad un rafforzamento istituzionale del ruolo del Parlamento, sembra fantasioso. E comunque, ciò dipenderebbe in concretodalla capacità del Parlamento di elaborare una proposta legislativa alternativa. In definitiva quindi, un eventuale rafforzamento del ruolo parlamentare sarebbe collegabile a mere contingenze eventuali e non sarebbe invece desumile con realismo dalla lettura del disegno propositivo in discussione.

Sembra piuttosto che l’idea del rafforzamento del ruolo parlamentare non solo non risulti realistica, ove passasse questa revisione, ma che sia smentita da quelli che sono i propositi dichiarati a più riprese diretti all’affossamento della democrazia rappresentativa quale è iscritta nella attuale Costituzione.

Comunque, venendo al testo della iniziativa in discussione, vale la pena non dimenticare che nella esperienza costituzionale italiana gli istituti avvicinabili al contenuto della proposta governativa non hanno dato esiti esaltanti. Basti considerare che in un quarantennio (1979 e il 2014) su 260 proposte di iniziativa legislativa popolare presentate alle Camere, soltanto l’1,15% è giunto all’approvazione. Né un significativo rafforzamento dell’iniziativa legislativa popolare si è avuto col nuovo Regolamento del Senato che ha previsto (art. 74) l’iscrizione d’ufficio nel calendario dei lavori dell’ Assemblea delle iniziative popolari destinate ad arenarsi nella fase di commissione.

Oggi la introduzione del referendum propositivo, a parte le oggettive difficoltà di renderlo compatibile con un ordinamento strutturato sul principio della democrazia parlamentare rappresentativa di tipo “classico”, appare una scelta rischiosa in quanto si presenta come un primo tentativo di scardinare il sistema voluto dalla Assemblea Costituente con una erosione progressiva dell’attuale regime secondo i propositi della maggioranza miranti alla introduzione di una forma di democrazia diretta pilotata da centri decisionaliextraparlamentari.

La proposta nel suo testo iniziale era preoccupante in quanto caratterizzata dalla mancata previsione di un quorum strutturale per la validità dello stesso referendum.Oggi questa vistosa omissione è stata superata ma le perplessità di fondo rimangono. Resta sullo sfondo una serie di questioni di estrema delicatezza che dovrebbero esser rimesse a successive leggi di attuazione. Dal testo in discussione, dopo gli ultimi emendamenti, rimane fuori una chiara definizione del ruolo della Corte Costituzionale nel pronunciarsi sulla ammissibilità. Troppo generico è il limite della compatibilità rispetto alla Costituzione. Nulla si esplicita quanto avincoli per le leggi penali, per i vincoli internazionali e comunitari. Questi vincoli dovrebbe essere inseriti nel testo costituzionale e non essere rinviati a leggi successive. La Corte sarebbe comunque investita di un rilevantissimo ruolo politico nel momento in cui dovesse tracciare una linea divisoria fra proposte di iniziativa popolare e normali proposte da approvarsi nella tradizionale sede parlamentare.

Una questione delicatissima che non pare presa in considerazione riguarda il rapporto fra votanti che assicurino la richiesta maggioranza di approvazione e Presidente della Repubblica ove lo stesso intendesse avvalersi della facoltà (o meglio del potere/dovere) di rifiutare la promulgazione di una legge incostituzionale. Oggi non conosciamo la ricetta da utilizzarsi. Non sappiamo a chi il Presidente dovrebbe rivolgersi rifiutando la promulgazione. Il che non è una omissione di poco conto. Il procedimento complessivo rimarrebbe quindi azzoppato con evidenti disparità rispetto a quello previsto in Costituzione ove si pretendesse di eliminare la fase di esame presidenziale prodromica alla promulgazione.