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Qualche giorno fa ho incrociato uno dei tanti cortei che in queste settimane attraversano le strade di Roma. In testa al gruppo c’era un ragazzo che dal megafono invitava a ribellarsi alla «scuola dei padroni». Passando poi davanti al ministero della Pubblica Istruzione, ho visto scritte ingiuriose contro l’attuale ministro, mischiate a slogan che sembravano usciti dai giorni peggiori della mia giovinezza quando le spranghe, i lacrimogeni e le demonizzazioni erano all’ordine del giorno.

Dato che ho vissuto in pieno la cupezza e gli orrori di quegli anni, non posso che sobbalzare nel vedere tirar fuori un armamentario che speravo scomparso per sempre. La cosa che sorprende, e che addolora, è il constatare che, in quarant’anni, non sia stata elaborata una diversa capacità di osservare – e contestare – la società. In questi ultimi decenni il mondo, la tecnologia e la civiltà hanno subito una straordinaria e incontenibile accelerazione, la struttura della collettività è in continuo mutamento, così come lo è il mondo economico. Questo cambiamento epocale contiene in sé elementi positivi e negativi che andrebbero analizzati e compresi per evitare che la parte distruttiva prenda il sopravvento, minacciando la complessità più profonda dell’uomo.

Cosa vuol dire oggi gridare contro alla «scuola dei padroni? I nostri padroni – i futuri datori di lavoro dei nostri ragazzi – saranno probabilmente cinesi. E i cinesi, non avendo alle spalle l’ebraismo e il cristianesimo, possiedono una concezione della persona e della società non propriamente assimilabile alla nostra. Credo che i ragazzi di oggi abbiano tutto il diritto di essere furibondi ma non per il grembiulino e il voto in condotta, bensì per come sono stati trattati dalle generazioni che li hanno preceduti, perché fin da bambini le loro teste sono state riempite di ogni sorta di porcheria fino a renderli sempre meno capaci di un pensiero autonomo e critico. Hanno il diritto di essere arrabbiati, perché questa società ha pensato a loro solo come consumatori, come categoria da blandire e da sedurre, facendo loro credere che la facilità e l’immediatezza fossero i perni intorno a cui ruota la vita.

Devono veramente essere indignati, ma per il mare di cinismo in cui sono stati fatti crescere, perché, per indolenza, per menefreghismo e per demagogia, è stato detto loro sempre sì, mentre per maurare,per diventare persone davvero adulte bisogna affrontare la selva dei no. Nessuno ha mai osato dire loro che la vita acquista senso nel momento in cui diventa costruzione e non intrattenimento. Dove sono gli adulti intorno a loro? Dove sono gli esempi, i modelli, le ragioni per cui un ragazzo può innamorarsi della vita e credere che vada vissuta con la totalità della persona e non rosicchiando qua e là modesti motivi di sopravvivenza? Ringraziando il cielo ci sono moltissimi educatori – genitori, professori, maestri – straordinari, ma sono persone costrette, come i salmoni, a nuotare contro una corrente che si fa sempre più impetuosamente devastante.

Lo spirito di questi tempi – uno spirito che è sempre esistito perchè fa parte della natura dell’uomo ma che ora è ancora più amplificato dalla onnipotenza irrefrenabile dei mass media – è quello del capro espiatorio. Ciò che tiene in vita la nostra società è ormai soltanto lo scagliarsi contro. I demoni si susseguono all’orizzonte come i pupazzi ruotanti di un tirassegno, sempre diversi e sempre uguali. Per finire nel loro novero, basta farsi estrapolare, da un discorso complesso, alcune frasi politicamente scorrette e darle in pasto alla malevola onnipotenza dei media. Ed ecco il nemico quotidiano è servito e, confortati dal calore collettivo, ci possiamo scagliare contro di lui, sentendoci così nobilmente superiori e protagonisti di un profondo rinnovamento positivo della società.
Cambiano i volti dei pupazzi, cambiano gli abiti e le tonache, ma il furore irragionevole che monta è sempre lo stesso e sempre la stessa è la certezza che solo eliminando quella persona si avrà una società più giusta. E dietro questi furori indignati, dietro queste invocazioni alla salvezza della civiltà e del progresso, si intravede pur troppo l’ombra del muro, del cappio, della folla o del singolo pronti a fare giustizia. Che civiltà è una civiltà che non è capace di riconoscere che il male non è fuori di noi, ma al nostro interno? Riconoscere il male dentro di sé, disinnesca automaticamente la sete di capro espiatorio. Solo nel momento in cui non si vede belzebù davanti a noi ma un altro essere umano, che condivide le nostre stesse fragilità e le nostre stesse incertezze, si può cercare di lavorare insieme per quella cosa così importante, eppure così scomparsa dai nostri orizzonti, che si chiama bene comune.

(Tratto da Il Giornale dell’ 8 novembre)

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