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Tratto dal Corriere della Sera di mercoledì 3 aprile 2019

 

Caro Direttore, per vent’anni la democrazia bipolare ha mancato l’appuntamento con la sua riforma. Oggi, invece, la “democrazia di Rousseau” (dalla quale nel secolo scorso sono derivati i peggiori totalitarismi) rischia di affermarsi nell’indifferenza dei più. L’introduzione del referendum propositivo, infatti, può rivelarsi un grimaldello per smantellare il Parlamento, a meno che non vengano rispettati alcuni paletti che lo portino a integrare e non a distruggere la democrazia rappresentativa.

  • Occorrono limiti di materia. La sola condizione della compatibilità costituzionale non basta. Oltre a escludere auspicabilmente le norme penali e i diritti delle minoranze, si deve rimediare a un paradosso: se infatti non si prevedono per il referendum propositivo le restrizioni vigenti per quello abrogativo (leggi tributarie e di bilancio, amnistia e indulto, trattati internazionali), una iniziativa meramente soppressiva di norme su questi temi sfocerebbe in un referendum formalmente propositivo, ma di fatto abrogativo, su materie per le quali quest’ultimo è interdetto.
  • Altrettanto dirimente è il limite numerico delle proposte che possono essere presentate in una legislatura: per evitare che una quantità spropositata di iniziative monopolizzi i lavori delle Camere, il tetto deve essere inserito in Costituzione e non demandato a una legge attuativa.
  • Con il nostro debito pubblico non ci si può accontentare di vietare iniziative che non indichino coperture per le maggiori spese. Nulla infatti impedirebbe così di riscrivere surrettiziamente la legge di bilancio. Si valuti piuttosto la formula ipotizzata dalla Commissione di esperti che ho avuto l’onore di presiedere, per cui l’iniziativa popolare “potrebbe svolgersi nei limiti entro i quali è ammesso il referendum abrogativo e sempre che non incida né sulle spese né sulle entrate pubbliche”.
  • Il cuore della questione è il rapporto tra iniziativa popolare e funzione legislativa delle Camere. Il problema insorge in caso di approvazione, da parte del Parlamento, di una legge sulla stessa materia sulla quale insiste l’iniziativa popolare. La riforma, infatti, prevede che se le Camere approvano la legge del popolo con modifiche sostanziali, venga indetto il referendum sulla proposta originaria: di fatto, un esautoramento della funzione parlamentare. Per salvaguardare l’iniziativa popolare, basterebbe precisare che per evitare il referendum la legge approvata dal Parlamento debba avere con essa comunanza di indirizzi.
  • Non si può impedire al Parlamento di legiferare sulla stessa materia dell’iniziativa popolare per 18 mesi (il tempo assegnato alle Camere per approvare le proposte pena l’indizione del referendum). La riforma stabilisce infatti che una legge, se diversa dalla proposta popolare, non venga promulgata prima dello svolgimento con esito negativo del referendum. Va quantomeno previsto con chiarezza che l’esame di altri testi non sia vincolato, nell’iter, alle leggi di iniziativa popolare di analogo argomento.
  • Risulta infine risibile il numero di 500mila firme per l’attivazione di uno strumento dall’impatto così dirompente.

I problemi, insomma, sono numerosi e rilevanti (sulle questioni qui enunciate, insieme ad altre come il ruolo della Consulta e i poteri del Presidente della Repubblica, rimando al sito della fondazione Magna Carta). Se la maggioranza vorrà, c’è ancora tempo per un ragionamento comune. Purché il perimetro sia la sovranità popolare e non il Villaggio di Rousseau.

 

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