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SI

GAETANO QUAGLIARIELLO

NO

CORRADO OCONE

Molti amici, in vista del referendum confermativo sulla riduzione del numero dei deputati e dei senatori, si sono schierati per il No.

Mai come questa volta non si tratta di ingaggiare un duello rusticano ma di cogliere l’occasione per aprire un dibattito vero, perché vi sono ragioni fondate a sostegno di entrambe le posizioni. Dal mio canto cercherò di spiegare per quale motivo, nonostante tutto, voterò Sì.

Se in realtà il referendum non fosse un’opzione binaria, con un Sì e un No, sul taglio dei parlamentari sarebbe la volta buona per fondare un comitato “Sì però”. “Sì”, per innescare l’opportunità di una riqualificazione della democrazia rappresentativa. “Però”, perché un percorso di riforme conseguenti è condizione necessaria affinché la sforbiciata possa produrre davvero qualcosa di utile.

Non mi soffermo su argomenti tecnici già ampiamente sviscerati dal dibattito di queste settimane e sui quali ci sarà modo di tornare. Soprattutto, non voglio nascondermi dietro un dito: come il contesto politico e il disegno di uno strapotere al tempo stesso senza efficacia e senza contrappesi ebbero un peso determinante nella vittoria del No al referendum renziano del 2016, è comprensibile che l’idea di dare una lezione al Movimento 5 Stelle stracciando nelle urne la sua bandiera “anti-casta” per antonomasia sia una tentazione reale.

Il paragone, tuttavia, regge fino a un certo punto. E nello spiegare il perché cercherò di non farmi velo della mia posizione oggettivamente poco imparziale, in quanto autore del primo disegno di legge della legislatura per la riduzione dei deputati e senatori.

Innanzi tutto, prendendo a prestito una metafora “virologica” in voga di questi tempi, in termini di incidenza sulla vita della nazione la distanza tra il renzismo di quattro anni fa e il grillismo di oggi è la stessa che passa tra una febbre crescente e in via di diffusione da un lato, e un problema già sperimentato e in via di contenimento dall’altro.

In secondo luogo, c’è una grossa differenza di merito. La riforma renziana era un corpus organico (ancorché sgangherato) e in sé concluso. Qualsiasi incongruenza (e ve n’erano molte ed evitabili, ve lo assicuro) sarebbe stata inemendabile. Approvato quel testo, non ci sarebbe stato più nulla da fare. In questo caso, con il taglio dei parlamentari ci troviamo di fronte a un innesco potenziale di riforma: a un intervento circoscritto e settoriale che per funzionare ha bisogno di interventi ulteriori e dunque, proprio per questa ragione, può mettere in moto un meccanismo di razionalizzazione del procedimento legislativo.

Infine, il tema più importante: la crisi della rappresentanza politica e istituzionale. Cosa penso del grillismo e dell’improvvisazione in politica è facilmente intuibile, anche alla luce della mia storia personale. Non bisogna tuttavia commettere l’errore di ritenere che l’avvento del M5S, con i suoi messaggi viscerali e la sua classe dirigente improvvisata, sia stato la causa di una delegittimazione delle istituzioni rappresentative. Piuttosto ne è stato l’effetto, perché tra liste bloccate e l’imposizione di miracolati completamente scollegati da qualsiasi legame con gli elettori, la politica tradizionale ha creato uno iato tra cittadini e istituzioni che il Movimento ha avuto l’abilità di riempire a colpi di slogan, salvo dimostrarsi peggio di coloro che ambiva a rimpiazzare.

Il fatto che la presunta soluzione (l’anti-politica) si sia rivelata peggiore del problema (la rappresentanza delegittimata), non significa tuttavia che il problema stesso sia venuto meno. La democrazia rappresentativa è in crisi, e il ruolo marginale del Parlamento nei mesi difficilissimi che il nostro Paese ha appena attraversato a causa della pandemia ne è una plastica dimostrazione.

Di fronte a questa realtà, chi intende la politica come esercizio di rappresentatività e competenza deve decidere se la soluzione al problema sia la conservazione di uno status quo a tal punto slabbrato da aver generato in sé il germe dell’anti-politica, o il tentativo di perseguire una strada diversa per il cambiamento.

Io credo che questa seconda sia l’opzione da preferire. Che non ci si possa rassegnare a una scelta obbligata tra il nulla grillino e l’immobilismo più totale. Non perché diminuire i parlamentari sia la panacea di tutti i mali, e tantomeno perché la democrazia possa essere ridotta a una questione di costi. Il fatto è che la rappresentanza parlamentare ha bisogno di ritrovare qualità, il procedimento legislativo ha bisogno di essere razionalizzato, il legame fra rappresentati e rappresentanti ha bisogno di essere riannodato. E con la vittoria del Sì avremo almeno aperto uno spazio di opportunità per provarci.

Lasciare tutto così com’è potrà darci la soddisfazione effimera di aver respinto al mittente l’assalto istituzionale di una classe politica di parvenue. Ma l’incapacità della democrazia rappresentativa a riformare se stessa è il brodo di coltura nel quale l’antiparlamentarismo affonda le proprie radici, e se non saremo noi a prendere in mano le redini del cambiamento per indirizzarlo nella giusta direzione, potremo illuderci di aver estirpato il sintomo più evidente della crisi della politica, ma la crisi resterà là e farà al nostro Paese e al Parlamento più male di prima.

Sarebbe buona regola quella di ragionare su un referendum di riforma costituzionale al di fuori di ogni contingente interesse politico. Si tratta, ovviamente, di un ideale regolativo che non sempre trova risconto nella realtà.

Eppure, a me sembra che mai come questa volta, per chi come me è critico di questa maggioranza e di questo governo, sostanza e interesse convergano nel far dire no alla legge sul taglio dei parlamentari.

Dal punto di vista sostanziale, astrattamente considerato, il provvedimento sarebbe abbastanza indifferente rispetto a quelli che sono i fini di un ordinamento politico democratico, cioè l’efficienza e la rappresentatività. A condizione ovviamente di essere corretto con una riscrittura dei collegi, una diversa legge elettorale e delle modifiche regolamentari.

Tutto questo, fra l’altro, fa parte del Patto di governo, ma i programmi come è noto, per volontà o per sopraggiunte complicazioni, spesso restano sulla carta ed il rischio concreto è che così succeda anche questa volta: ci dovremo tenere il taglio, ma senza i correttivi.

Le precedenti leggi di riforma costituzionale prevedevano spesso questo provvedimento, ma esso era appunto inserito in un contesto più vario ed era tendenzialmente organico a tutto il resto. Si dice: ma intanto è bene cominciare, far rimettere in moto il treno di chi vuole aggiornare una Carta che è in più punti veramente datata.

La considerazione, fatta da me stesso quando qualche anno fa si votò per la riforma proposta da Renzi, che mi trovava favorevole proprio nell’ottica dei “primi passi”, non vale in questa circostanza.

Sia perché, come detto, il “primo passo”, anche accompagnato dai correttivi, sarebbe piccolo e impercettibile (mente il superamento del bicameralismo perfetto proposto da Renzi non lo era); sia perché ai proponenti, cioè ai grillini, di riformare la Costituzione non interessa nulla, così come non interessa in fondo tutelare o rafforzare gli strumenti della democrazia rappresentativa.

Ai grillini interessa solamente vincere una battaglia simbolica di “risentimento” sociale, tutta immagine e pochissima sostanza (anche i risparmi sono irrisori), e dare un altro colpo a quella democrazia rappresentativa che detestano.

Perché farsi complici di questo disegno, e della demagogia di fondo che lo ispira?

E veniamo così alla sostanza politica del tutto, un terreno in cui, in questo caso, si sono posti per prima proprio i proponenti. Come è noto, il Movimento Cinque Stelle è in calo verticale di consensi da almeno un anno, attestato sia dai sondaggi sia dalle consultazioni svoltesi. Tutto lascia presumere che così accada anche questa volta.

A di Maio e compagni la sera del 21 rimarrà perciò in mano solo questa vittoria, che si intesteranno come è giusto che sia (hanno voluto la legge e hanno persino costretto i loro diversi alleati, fra Conte I e Conte II, a convergere sulla loro richiesta).

Questa vittoria coprirà quindi completamente la sconfitta generale e non farà correre rischi all’esecutivo. Diverso sarebbe lo scenario se vincessero i no: la sconfitta su tutti i fronti della prima forza di governo, la farebbe implodere e ciò si porterebbe dietro la caduta del governo e le elezioni anticipate.

Ciò presupporrebbe che il centro fosse compatto e osasse percorrere una via dificile ma non impossibile (la presa dell’antipolitica non è più forte come un tempo).

Certo, comunque sarebbe un rischio, ma ho l’impressione che politicamente parlando andrebbe corso: è l’ultimo treno che si presenta alla sinistra per adeguare paese reale e paese legale.