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1. Il dibattito riformatore della Costituzione è sempre stato, nel corso dell’ultimo decennio, all’ordine del giorno e ben presente nell’agenda politico-istituzionale. Esiti effettivi (e dunque le sue modifiche), si sa, non ve ne sono stati, a parte la novella del titolo V del 2001, dovuta alla legge costituzionale n. 3 del 2001. Il tema resta sicuramente aperto ancor oggi e richiede pertanto anche alla dottrina giuridica di svolgere la sua parte. Talvolta, sembra farsi spazio persino la prospettiva di una ipotetica (e sicuramente problematica) riforma della parte prima della Costituzione. E tra gli oggetti di essa, l’art. 41 è sicuramente tra i più spinosi.

L’art. 41, d’altra parte, è sempre stato al centro delle interpretazioni giuridiche che toccano l’individuo, le sue libertà ed il mercato, con connotazioni che meritano di essere opportunamente rimarcate. Questa disposizione è stata “tirata per la giacca” più volte nella storia repubblicana; ora per dare una decisa vocazione sociale all’assetto economico-giuridico nazionale, ora per rivendicare il fondamento liberale che la ispira. L’avvento del diritto comunitario è parso, ad un certo momento, avere la forza di mettere l’art. 41 quasi in secondo piano. Il valore dominante sarebbe stato quello della libertà di mercato, in una con la libertà di stabilimento e di circolazione dei beni, servizi e capitali.

Nel confronto tra giuristi, però, proprio quando sembrava che gli artt. 81 e 82 del Trattato avessero ormai soppiantato l’art. 41 (ed è questa l’opinione, come si sa, espressa da molti sul piano dell’interpretazione del diritto positivo, come si ricorderà più avanti), il rapporto della libertà di mercato con la Costituzione (e quindi con l’art. 41) è tornato in primo piano. Ciò è stato la conseguenza inevitabile della effettiva e diffusa penetrazione della libertà di concorrenza quale valore ordinamentale; il quale valore, dopo avere ispirato nel corso degli anni ’90 le politiche legislative di liberalizzazione e privatizzazione dell’economia, ha inesorabilmente iniziato ad operare come principio giuridico regolatore dei rapporti tra consociati, o direttamente o tramite norme ed atti amministrativi. Nel momento in cui la libera concorrenza “si è fatta precetto”, nei provvedimenti antitrust come nelle misure asimmetriche di regolazione di mercati altamente specialistici, nelle sentenze del giudice amministrativo in materia di contratti pubblici come nel contenzioso contrattuale, il giurista ha avuto bisogno di capire e “ponderare” il modo in cui tale principio potesse operare.

Cosa rappresenti nell’ordinamento costituzionale l’art. 41 è divenuto così, ancora una volta, quesito d’attualità. E questa presenza della norma nel dibattito giuridico è destinata a divenire ancor più scintillante nel triste panorama aperto dalla crisi. Vediamo in questi giorni soluzioni, proposte e preoccupazioni che mettono sulla scena, quasi come un ciclo della storia che si va ripetendo, l’intervento dello Stato in funzione correttiva dell’economia e poi, subito dopo, la preoccupazione di un eccessivo sacrificio della “liberalizzazione” che sino a ieri sembrava un valore inattaccabile.

2. L’originaria anfibologia dell’art. 41 è stata, nel corso del tempo, abbondantemente scolorita. Alcune delle interpretazioni che erano state “possibili” all’indomani della difficilissima mediazione fatta in Assemblea Costituente sono rimaste infatti prive di sviluppo. E se, nei primissimi anni di vita della Costituzione, hanno mantenuto, pur quiescenti, una sorta di sopita vitalità, pronta a riaccendere e infiammare, di volta in volta, il dibattito, esse, nella fase che si è aperta con la chiusura degli anni ’70, hanno lasciato definitivamente il passo ad altre prospettive.

E’ riconosciuto pressoché da tutti che questa disposizione ha mantenuto nel tempo la sua ambiguità di fondo, che è talora apparsa quasi come una mancanza di chiara scelta costituzionale, celata dietro il velo della costituzione economica mista. Tuttavia, è indubbio che pur tra queste incertezze e pur nelle oscillazioni che all’interno della giurisprudenza costituzionale sono state innegabilmente presenti, la predetta mediazione ha posto un argine alle prospettive collettivistiche che concepivano una sottovalutazione, se non una parziale negazione, di questa libertà. Per un verso, il raccordo tra i commi dell’art. 41 adegua sì la dichiarazione di libertà dell’iniziativa economica alla qualificazione sociale dello Stato repubblicano, intendendo con tale aggettivazione una forma di Stato imperniata sui valori solidaristici, sulla partecipazione dei consociati alle Istituzioni e sul primato della persona umana; per altro verso, la detta libertà è rimasta però intoccabile nella sua essenza a causa dell’esclusione di ogni forma di collettivismo. La libertà di iniziativa economica privata ha resistito e resiste, con la sua autonoma efficacia precettiva, ai limiti negativi del comma 2 (in special modo a quello dell’utilità sociale), nonché ai programmi e controlli indirizzati a fini sociali.

Il sistema misto che avrebbe connotato la nostra costituzione economica si è quindi via via orientato, in modo sempre più netto, verso quel polo liberale di interpretazione che affermava con convinzione primato e riconoscimento della libertà di impresa come autentico diritto individuale di livello costituzionale.

E’ soprattutto con l’Atto Unico europeo e col Trattato di Maastricht che il modello dell’economia di mercato esercita nell’ordinamento italiano un’influenza determinante, contribuendo a scompaginare l’assetto delle relazioni tra politica ed economia (fortemente influenzate dalla presenza pubblica nei rapporti economici), a modificare profondamente le istituzioni della nostra costituzione economica e anche a definire il volto di una mutata costituzionale materiale.

L’ordinamento comunitario nutre il mercato interno europeo del principio di libera circolazione dei beni e servizi, di libertà di stabilimento e di libertà di concorrenza. Il mercato unico, nella sua poderosa oggettività, diviene la matrice e l’architrave del progetto di unione dei paesi europei.

Sicché il rapporto tra l’art. 41 e le norme del Trattato sulla tutela della concorrenza può esser descritto, con inevitabile sintesi, come quello che corre tra un fenomeno soggettivo ed uno oggettivo. La norma costituzionale fonda una situazione soggettiva di libertà individuale. Il diritto comunitario esprime invece prevalentemente un modello di relazioni economiche e giuridiche. La prima garantisce tutela al diritto di impresa, ma non si impegna nella scelta di sistema che sarebbe stata necessaria per porre liberalizzazione e mercato alla base delle relazioni di tipo economico. La seconda pone invece l’apertura del mercato e la libera competizione come premessa per il loro svolgimento; sicché prende le mosse da tale libertà, reprime ogni forma di limitazione ed ogni discriminazione all’accesso, accresce le quantità di informazioni sul mercato a beneficio dei consumatori, vieta gli aiuti pubblici alle imprese, esige il livellamento dei campi di gioco con la regolazione asimmetrica che ha interessato soprattutto gli ex monopolisti pubblici, sanziona gli illeciti anticoncorrenziali e limita le concentrazioni che hanno effetti anticompetitivi.

E’ in questo contesto che, a Costituzione invariata, si è aperto in dottrina il confronto.

Ed è stata l’apertura del sistema come criterio di fondo delle relazioni tra politica ed istituzioni che ha indotto a ricercare, sul piano costituzionale, valori innovativi, o meglio a desumere, dai principi comunitari o tra le maglie dell’art. 41, il nuovo indirizzo che varrebbe a superare quello, ormai datato, connaturale allo Stato interventista.

3. Però ci sono due considerazioni da fare.

La prima è che svolte culturali così profonde e repentine non sono possibili, o comunque non sono particolarmente efficaci, se non trovano nelle strutture sociali e soprattutto in quelle istituzionali un terreno fertile. Se un’amministrazione ha una tradizione e propensione interventista, se è modellata e strutturata (specie per profili quantitativi di persone e beni) come amministrazione di servizi ai cittadini anziché apparire come una essenziale amministrazione di funzioni, è ben difficile che si possa transitarla, in poche battute, ad un dimensione differente, nella quale il primato andrebbe al privato ed al mercato tout court.

La seconda è che liberalismo ed interventismo di Stato conoscono declinazioni e reciproche interazioni via via diverse, per gradazione ed intensità. L’uno conosce le sue correzioni dovute alla sfera pubblica, l’altro può ammettere in qualche misura la coesistenza della libertà d’impresa.

Ciò che si vuol rimarcare, a questo punto, non è tanto il fatto che le interpretazioni  diffuse si aprano sino a riconoscere che la tutela della concorrenza è (ormai) un valore costituzionale, quanto la circostanza che l’attenzione sull’art. 41 Cost. sia andata spostandosi in questi ultimi anni dal polo soggettivo della garanzia individuale di una libertà al polo funzionale ed oggettivo del libero mercato concorrenziale come valore in sé, tutelabile in virtù di un suo valore ontologico anziché per la sua strumentalità a soddisfare le pretese dei singoli.

Nel “diritto vivente” sembra talora profilarsi una tendenza che potrebbe addirittura assorbire la detta valenza soggettiva nella prospettiva oggettiva. Sembra quasi che dal discorso su le libertà si sia passati frequentemente al discorso sulla tutela de la libertà del mercato come regola delle relazioni economico-sociali. E si noti che tale regola sfocia in una pluralità di discipline che mostrano (ed hanno in concreto esibito) una notevole capacità espansiva, con netto incremento della sfera pubblica nel mercato: regolazione asimmetrica pro-concorrenziale; disciplina antitrust; tutela del consumatore.

E’ qui che inizia allora a materializzarsi un pericolo che potremmo definire come il paradosso della libertà di concorrenza.

E’ sottolineando questo passaggio dalla concezione soggettivistica ad una concezione (quantomeno potenzialmente) oggettivistica dell’art. 41, che si può passare ad esaminare i problemi che un dibattito attento sia alle prospettive di riforma sia agli sviluppi dell’interpretazione costituzionale non potrebbe che prendere in seria considerazione.

Questo processo di oggettivizzazione dei valori costituzionali presenta, allo stato, dei rischi. Essi sembrano ricadere, per una curiosa eterogenesi dei fini, sulla stessa garanzia della libertà individuale d’impresa. Se la protezione costituzionale si sposta dalla libertà individuale alla valenza oggettiva del mercato concorrenziale (o meglio di quel mercato concorrenziale che, di volta in volta, sarà identificato dal legislatore o dall’Amministrazione, o da un’Autorità indipendente o da un giudice) potremmo a tal punto caricare di contenuti tale ultimo “valore” da dargli una potente connotazione finalistica (“si deve raggiungere un certo assetto di libero mercato!”), la quale, a ben vedere, potrebbe tradire proprio la radice istituzionale e culturale del progetto.

4. In primo luogo, il ragionamento denuncia un primo pericolo, ben noto alla letteratura giuridica come a quella economica, vale a dire quel fenomeno noto come eccesso della regolazione.

L’affermazione del “miglior libero mercato possibile” nei termini di valore ontologicamente costituzionale ben potrebbe indurre le istituzioni preposte (solo) a vigilare ed a regolare il mercato allo scopo di evitarne i suoi fallimenti ad adottare un numero particolarmente elevato di norme, così come potrebbe spingere il legislatore ad adottare interventi restrittivi della libertà di mercato per fini di liberalizzazione.

L’effetto, quando di vero eccesso si tratta, è quello di ingessare il mercato e di ridurre le libertà, inesorabilmente. In nome della libertà di mercato e della libertà di concorrenza si finisce, insomma, per produrre una iper-regolazione del mercato. Per esser chiari e per non correre, a nostra volta, il rischio di apparire antistorici, l’eccesso regolatorio non è affatto sinonimo di buona vigilanza dei mercati. Anzi, specie in ordinamenti di tipo continentale, la produzione di regole può essere uno dei motivi che inducono ad un allentamento della vigilanza sul mercato volta ad evitare comportamenti abusivi o lesivi della sicurezza e dell’interesse generale così come quelli che, con, ogni probabilità, sono stati alla radice della crisi finanziaria globale di questi tempi. La produzione di regole eccessive, non calibrate, non mirate ai problemi, da un lato resterebbe fine a se stessa, e dall’altro porrebbe ostacoli ad attività di vigilanza e repressive di illeciti le quali, viceversa, devono poter operare nella concretezza dei fatti e senza sentirsi obiettare che un certo tipo di comportamento possa esser giustificato dall’uno o dall’altro tipo di regola speciale nel frattempo emanata.

Il rischio, per il giurista, potrebbe esser definito anche di tipo culturale, perché, in un contesto di questo tipo, si potrebbe persino smarrire la centralità di quel rapporto regola-eccezione che ha caratterizzato la relazione tra libertà di iniziativa economica ed i suoi limiti negativi e positivi ex commi 2 e 3, per consentire che sovente la regolazione pro-concorrenziale abbia la meglio sul contenuto minino della libertà economica.

Una concezione costituzionale strutturale e oggettiva della libertà di mercato (qualcosa di simile a quel che è stato definito di recente in chiave critica come il mercatismo) potrebbe produrre un eccesso di regole e di interventi amministrativi tendenti, dichiaratamente, alla regolazione pro-concorrenziale ed alla tutela antitrust, ma surrettiziamente mirati alla tutela di altri interessi sulla base di scelte spiccatamente politiche. Non è un caso che le analisi dottrinali recenti abbiano denunciato la carenza di una chiara consapevolezza, a livello di interpretazione costituzionale, di quali siano (e quali presupposti richiedano, da quali soggetti possano essere prese e quali contenuti possano assumere) le misure limitative della libertà di iniziativa economica ispirate ad una regolazione neutrale e pro-concorrenziale, e quali siano invece le misure limitative e conformative ispirate al contemperamento di questa libertà con altri valori costituzionali. Se questa consapevolezza manca, probabilmente, è più facile che il rischio in questione si concretizzi. Ed esso potrebbe ridondare in un eccesso di regolazione che non sia solo di tipo quantitativo, ma anche di tipo qualitativo: quando, appunto, sotto l’egida della regolazione neutrale e pro-concorrenziale passasse una normazione e limitazione aventi finalità differenti ma non dichiarate e non filtrate come tali nel circuito istituzionale.

5. Se tesi rigidamente strutturalistiche accedessero al livello costituzionale e condizionassero anche l’interpretazione della Carta sino a dare subalternità agli altri concorrenti valori costituzionali ed alle libertà individuali, vi sarebbe anche (sebbene possa apparire, appunto, paradossale, essendosi testé preso di mira l’eccesso di regolazione) il pericolo di uno svuotamento dell’essenziale e irrinunciabile tratto “giuridico” dell’ordine di mercato.

Un ordine “giuridico” del mercato presuppone infatti che le regole rispondano a chiari e determinati interessi filtrati dalla legge. Del resto, la complessità del sistema richiede che gli interessi in conflitto siano contemperati tra loro e che ne venga una sintesi istituzionale, perché non tutto può ovviamente essere lasciato al mercato, e la complessità è un dato non eliminabile. Per dirla con Von Mises, “chi predica il ritorno a forme più semplici di economia sociale, dimentica che soltanto il nostro assetto economico offre la possibilità di sostentare, così come si fa oggi, il numero di individui che popola attualmente il nostro pianeta”.

E’ questo il secondo rischio di cui dobbiamo tener conto. Che sia così è confermato da un dato, tanto evidente quanto spesso trascurato nell’analisi e nelle interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali: il mercato libero non è una realtà ontologicamente compiuta, non esiste come elemento dato, non è sempre eguale a se stesso, non esiste un unico e infallibile libero mercato efficiente. Il mercato è l’arena privilegiata delle conseguenze inintenzionali. Una Costituzione che accoglie l’apertura del mercato, dunque, non deve affatto rinunciare a regolarlo. Ma non deve dimenticare che esso deve esser regolato per la tutela di tutti gli interessi costituzionali puntualmente identificati e assicurando il contemperamento di tutte le libertà individuali in gioco. Per dare una dimensione giuridica al mercato è indispensabile restare all’interno del quadro costituzionale e quindi negare l’autosufficienza di regole del tutto impermeabili agli altri indici o valori che caratterizzano l’ordinamento nella sua globalità. Non si deve insomma pensare di dovere regolare il mercato … per il mercato. Non esiste solo una (troppo astratta e vaga) regolazione pro-concorrenziale. Anche perché ricordando ancora Von Mises, “quella dell’interventismo è una situazione disperata, in cui ogni fallimento spinge a nuovi interventi”: l’effetto di una ricerca della concorrenza strutturale e perfettamente congegnata, fine a se stessa, può allora generare una rincorsa all’infinito che, sempre in suo nome, commette il peccato di un novello interventismo che smarrisce persino il suo fine e che, come tale, è da guardare con ancora più sospetto. Anche l’obiettivo del consumer welfare, di consueto identificato come tratto unificante della disciplina antitrust e di quella regolatoria pro-concorrenziale, è spesso così impalpabile e sfuggente da diventare una guida incerta.

Pertanto, esaurire il tema della disciplina costituzionale delle libertà economiche sul piano oggettivo-funzionale (della libertà di concorrenza in sé), senza guardare al piano della libertà individuale d’impresa ed al suo concreto dispiegarsi, comporta un metodo che contraddice un sano individualismo metodologico e che potrebbe persino approdare, se spinto agli estremi, ad un terreno scientista e collettivista, ben lontano dall’analisi corretta di come i fenomeni individuali si manifestano nella società. Il terreno di sviluppo di una norma costituzionale qual è l’art. 41 è quello delle scienze sociali, alle quali non si addice il metodo meccanico tipico di quelle naturali; e questo perlomeno vale se si condividono i postulati di fondo dell’individualismo metodologico. Il pericolo scientista è allora che sotto il terreno, non ben definito, della libera concorrenza si perda di vista lo scorrere di un fiume carsico ricco di interessi i più vari, i quali, beninteso, devono sì concorrere a correggere le libertà economiche, ma mediante l’azione trasparente ed esplicita della legge e dell’azione amministrativa e non sotto un velo che ne maschera e la collocazione costituzionale e il grado e modo di contemperamento. Si deve ammettere che il mercato richiede un ordine giuridico e che tale ordine giuridico non può dirsi ispirato solo … al mercato stesso.

Se quest’ultima consapevolezza viene tenuta ferma e si evita così la prevalenza della concezione oggettiva su quella soggettiva delle libertà economiche, avremo conseguenze importanti sul piano dell’interpretazione costituzionale. Potremo dire, ad esempio, che la Costituzione non acconsente ad una legislazione che, in nome della concorrenza, finisca col sottovalutare il piano delle libertà individuali. E potremo dire altresì che, ad esempio, essa non legittima una normazione che sia ciecamente e strutturalmente ispirata ad una idea di concorrenza data e fissa, che non faccia un bilanciamento di tale interesse pubblico alla concorrenza con gli altri interessi pubblici in gioco, che non li ponderi e contemperi tutti insieme, e che perciò entri disinvoltamente nel contratto (il quale resta il cuore delle libere relazioni nel mercato) o addirittura che finisca per sottacere di voler mirare ad altri interessi pubblici, mascherandoli dietro il velo della liberalizzazione (espressione divenuta di gran moda, ma purtroppo ormai estremamente ambigua) piuttosto che dichiarandoli apertamente alla comunità.

6. Il mutamento di prospettiva nei rapporti tra sfera pubblica ed economia è visibile in questi ultimi periodi ed è purtroppo verosimile che gli effetti della crisi determineranno altre conseguenze normative di questo genere.

Potremmo allora domandarci come l’interventismo nella stagione della crisi debba confrontarsi col precetto costituzionale che tutela l’iniziativa economica privata.

Se esso avesse effettivamente accolto un modello strutturale di assoluta concorrenza e indifferenza e neutralità dell’amministrazione ai destini dell’economia dovremmo paradossalmente porci il problema della legittimità costituzionale delle misure straordinarie di questi ultimi mesi e anni. D’altra parte, un approccio di questo tipo potrebbe esser smentito già mediante l’interpretazione letterale, dato che l’art. 41, comma 2, conserva il riferimento ai limiti preposti alla salvaguardia dell’utilità sociale, nonché alla sicurezza, libertà e dignità umana, ed il comma 3, a sua volta, mantiene il potere del legislatore di determinare i programmi e controlli opportuni per indirizzare e coordinare l’attività economica a fini sociali. Dunque, se guardiamo all’art. 41 non dobbiamo per forza di cose coltivare il sospetto della incostituzionalità di misure che oltretutto sono prese nel contesto storico ed economico che ben si conosce.

Questo, però, ci conferma che il valore di una libera concorrenza in chiave oggettiva non è valore costituzionale in senso assoluto, per due ragioni: i) la prima è che ciascun interesse pubblico di rango costituzionale non si pone mai come valore assoluto, perché va sempre bilanciato e contemperato con gli altri interessi che siano via via configgenti con esso; ii) la seconda, tutta interna alla costituzione economica, sta nel fatto che l’apertura del mercato come scelta di fondo deve pur sempre leggersi in una con quella disposizione che riconosce come libertà costituzionale fondamentale, per l’appunto in chiave soggettiva, la libertà di iniziativa economica privata.

Quest’ultimo passaggio aiuta anche a comprendere che, finché si terrà fermo il bilanciamento tra una concezione soggettiva ed una oggettiva, ossia quella dinamica libertà vs limiti, sarà più semplice trovare un punto di equilibrio nel diritto della crisi, senza tornare a forme di interventismo o protezionismo nazionale che appaiono, a tacer d’altro, incompatibili con l’economia globalizzata. Questo punto di equilibrio porterà ad affermare che le limitazioni all’autonomia contrattuale sono certamente possibili, ma che devono rispettarne l’essenza intangibile e che deve comunque proteggersi la certezza delle relazioni contrattuali e dei traffici. Porterà a ribadire che il sistema delle limitazioni all’iniziativa economica dev’essere filtrato dalla legge e deve nutrirsi anch’esso del principio di legalità. Infine, la presenza pubblica e l’intervento pubblico devono esser contenuti nei limiti dei presupposti che la giustificano, secondo i canoni di ragionevolezza e proporzionalità, che si nutrono a loro volta anche delle fonti e della prassi comunitaria.

Questa fase di transizione, con tutte le difficoltà che reca con sé, ci ricorda allora che nel mercato rimane salda la centralità della persona e, con essa, della sua libertà di iniziativa privata.

Modificare l’art. 41, sostituendo lapidariamente la libertà di concorrenza alla libertà di iniziativa privata, potrebbe allora rilevarsi paradossalmente sbagliato, tanto quanto tornare ad una dimensione di interventismo pubblico in una economia pianificata. E ancor più paradossale sarebbe dimenticarne il primato rispetto alla (pur lungimirante che fosse) strutturale configurazione del mercato che l’ordinamento positivo avesse, in un dato momento storico, prescelto.