03 Novembre 2006  

Scienza e religione

Redazione

 

Nel discorso di Regensburg e, soprattutto, nel discorso di Verona, Benedetto XVI ha affrontato di nuovo una questione che è un leitmotiv delle sue riflessioni, ovvero il fondamento oggettivo della conoscenza, contro ogni visione radicalmente relativistica, e la possibilità di una concezione ampia della ragione che includa la dimensione della fede e della religiosità e non consista nella ragione mutilata e “ridotta” del positivismo. È un punto di vista che richiama la battaglia filosofica condotta da Edmund Husserl, quando parlava – per l’appunto – dei problemi della ragione come problemi non riducibili alla sfera naturalistica, ma includenti “le idee e gli ideali “assolutamente”, “eternamente”, “sopratemporalmente”, “incondizionatamente” validi» e criticava il concetto positivistico della scienza come «un concetto residuo», il quale aveva escluso dalla sfera della razionalità i problemi del “senso” e, soprattutto, il problema di Dio, ovvero «il problema della ragione “assoluta” in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione del mondo, del “senso” del mondo».

Pertanto, il problema del rapporto con la ragione scientifica e con la scienza – che oggi, più che mai, aspira a presentarsi come l’unica fonte di razionalità – è centrale in questa problematica. Nel discorso di Verona, Benedetto XVI ha osservato che l’incontro tra fede e scienza «si manifesta, in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale, anzitutto in rapporto alla ragione che ha dato vita alle scienze moderne e alle relative tecnologie». Ed ha proseguito osservando: «Una caratteristica fondamentale di queste ultime è infatti l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore».

Si tratta di un complesso di affermazioni molto importanti, in primo luogo perché chiudono definitivamente, sul piano teoretico e non soltanto su un generico terreno di “tolleranza”, il conflitto tra la Chiesa cattolica e la scienza apertosi con il “caso Galileo”. Nella visione derivante dalla teologia medioevale, e in particolare legata al pensiero di Tommaso d’Aquino, la ragione era vista come strumento fondamentale per il consolidamento della fede, ma la scienza poteva soltanto fornire un supporto “ancillare” alle verità della fede contenute nella testualità delle Sacre Scritture. A Galileo si obbiettava che egli avrebbe pur potuto fare uso del modello eliocentrico come “modello matematico” per effettuare dei calcoli e delle previsioni empiriche, ma che non era lecito attribuire un valore di verità a tale modello. Si trattava dello scontro tra due visioni teologiche, peraltro entrambe cristiane: a fronte di quella medioevale che separava nettamente verità fisiche e verità matematiche, Galileo proponeva una visione di Dio come “Supremo Matematico” che aveva scritto la natura in quella lingua, senza la quale l’uomo non avrebbe potuto intenderne una sola parola. Oggi, il Papa non si limita a ribadire la legittimità del discorso di Galileo nei termini di un generico riconoscimento della libertà di pensiero, ma adottandolo come fondamento teologico, come base per affermare la coincidenza tra ragione soggettiva e ragione oggettivata nella natura, la quale coincidenza da conto della verità delle acquisizioni conseguite dalla ragione umana e, al contempo, mostra come, ricercando la verità attraverso la ricerca scientifica, l’uomo scopra il disegno divino.

È un discorso che richiede tuttavia alcune specificazioni importanti, altrimenti si rischia di riproporre quella visione ridotta e positivistica della ragione tanto giustamente deprecata. Difatti, se non soltanto la natura inanimata – la sfera dei fenomeni fisici e meccanici, cui di fatto si riferiva Galileo – ma tutto il mondo, inclusa la sfera vitale ed anche quella umana, è da intendersi come sottomesso a leggi di carattere matematico, quale libertà resterà all’uomo e a Dio stesso? Di più: tutto, inclusa la spiritualità umana, ricadrà entro il campo delle leggi matematiche di tipo naturalistico, di modo che, per tale via, verrà riaffermata la supremazia delle scienze naturalistiche su ogni aspetto del mondo e verrà riproposta una visione della ragione come “ragione ridotta” ed ogni spiegazione razionale sarà da intendersi come spiegazione meramente naturalistica.

È ben comprensibile che risulti oggi estremamente imbarazzante aprire un discorso critico sulle concezioni filosofiche di Galileo, con il rischio di essere accusati di voler intentare un nuovo processo al grande scienziato. Ma è giocoforza ammettere che la formula di Galileo secondo cui “il mondo è matematico” contiene aspetti profondamente ambigui e discutibili, sia dal punto di vista concettuale che strettamente scientifico. Da questo secondo punto di vista, bisogna tener presente il fatto che l’idea di un mondo strettamente governato da leggi naturali formulate in termini matematici non regge il passo con gli sviluppi moderni della ricerca e nessuno è oggi seriamente disposto a difenderla. La realtà si presenta in termini molto più sfaccettati e “complessi” di quanto riteneva Galileo – che concepiva il mondo come strutturato su principi “semplici” – e le indubbie regolarità dei fenomeni non appaiono sempre riducibili a “leggi” nel senso forte del termine. Questo fa sì che la scienza oggi tenda a proporre rappresentazioni dei fenomeni mediante modelli piuttosto che tendere a ricondurli sistematicamente a leggi universali. È indubbio che tale tendenza apra la strada a tentazioni relativistiche; ma queste possono essere contrastate soltanto vedendo la conoscenza scientifica come un processo lento e interminabile di avvicinamento al vero e mai come una acquisizione di verità assolute e definitive. Questa visione riflette l’idea dell’acquisizione del vero proposta da Nicola Cusano, e non ha nulla a che fare col relativismo che afferma l’impossibilità di decidere in termini di maggiore aderenza al vero tra due diverse teorie e, in definitiva, l’inesistenza di criteri di verità. Al contrario, è proprio un approccio basato sull’idea che la verità possa essere acquisita in modo completo, definitivo e una volta per tutte, ad aprire la strada al relativismo, per la constatazione dell’impossibilità di perseguire un punto di vista così radicale. Già cinquant’anni fa un celebre scienziato, Eugene Wigner scriveva un memorabile articolo sull’“irragionevole efficacia della matematica” in cui considerava questa efficacia un mistero, piuttosto che come un’evidenza, a causa della compresenza di leggi fisiche forti e di regolarità deboli che non consentiva di attenersi alla visione galileiana. Non è quindi sostenibile l’idea che il mondo sia “matematico”, bensì è possibile affermare che la matematica rende conto in modo sorprendentemente efficace delle regolarità di alcuni aspetti del mondo, ma non di tutti; e che tale efficacia è tanto più forte nel mondo dei fenomeni inanimati, mentre appare più debole, se non quasi inconsistente nella sfera dei fenomeni vitali e soprattutto dei fenomeni in cui interviene la coscienza.

Proprio così è possibile acquisire un’idea più ampia della razionalità, in cui la determinazione razionale delle regolarità che governano il mondo trova nella matematica uno strumento fondamentale, ma non l’unico. Occorre affermare il principio che, per comprendere razionalmente il mondo, è necessario mettere in opera la ragione in tutta la sua ricchezza e complessità, e non soltanto come ragione naturalistica o “scientifica” nel senso positivistico del termine, ovvero ristretta alla metodologia suggerita dalle scienze fisico-matematiche.

È così possibile lasciarsi alle spalle una grave difficoltà aperta dalla visione galileiana e che è particolarmente evidente nel pensiero di Cartesio e che, di qui, ha pervaso tutta l’epistemologia della scienza moderna. Si tratta dell’idea secondo cui il mondo ha un carattere assolutamente oggettivo. Esso sarebbe stato strutturato da Dio in termini di leggi matematiche assolutamente invariabili e intangibili, persino da Dio stesso, e che quindi rende per sempre inutile e passiva la sua presenza nel cosmo (Dieu fainéant). Se aggiungiamo a quest’idea quella secondo cui tutto il mondo, e non soltanto quello delle leggi fisiche, è strutturato in tale forma oggettiva assoluta, la presenza divina è espulsa anche dalla sfera della coscienza soggettiva e l’assenza di Dio dal mondo diventa totale. Vengono in tal modo posti i fondamenti dell’ateismo e della negazione di ogni fondamento trascendente della morale. Non a caso, di fronte a tale dilemma posto in termini drastici, la teologia islamica medioevale ha scelto la via di un rifiuto radicale della scienza e in particolare della matematica (vista come una scienza che conduce all’ateismo). È stata una scelta sbagliata e distruttiva e il mondo cristiano europeo è stato invece capace di offrire un fertile terreno allo sviluppo della scienza e della tecnologia moderne: per quanti conflitti vi siano stati, la rivoluzione scientifica è avvenuta nell’Europa cristiana e non altrove. Al contrario, il mondo islamico si è estraniato da questi sviluppi e ne paga ancor oggi le conseguenze. Ma il problema sopra menzionato esiste. Ancora una volta, la via d’uscita è una visione allargata della ragione, che includa la dimensione della soggettività, del “senso”, della finalità della presenza umana nel mondo, e non soltanto quella della spiegazione nei termini di un naturalismo oggettivistico di stampo fisico-matematico. È un merito straordinario dei discorsi del Papa quello di aver portato all’attenzione ed alla riflessione questi temi cruciali e vitali per la sopravvivenza stessa di una civiltà degna di questo nome.

Giorgio Israel è professore ordinario di storia della matematica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Tra i suoi libri più recenti: “La macchina vivente. Contro le visioni meccanicistiche dell’uomo”, Torino, Bollati-Boringhieri, 2004; “La Kabbalah”, Bologna, Il Mulino, 2005; “Liberarsi dei demoni. Odio di sé, scientismo, relativismo”, Milano, Marietti, 2006.