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Diciamo la verità la riforma obamiana della sanità americana da un lato ci lascia più di una perplessità ma dall’altro ci determina un qualche entusiasmo e a fianco un senso di invidia. Le perplessità nascono dal fatto che, a nostro avviso, tutta la campagna di Obama sulla riforma sanitaria è stata costruita ad arte forzando la lettura della realtà e toccando tasti socialmente sensibili. Insomma è stata una grande campagna pubblicitaria.

In realtà, nonostante le superficiali letture di noi europei (e soprattutto di noi italiani), non è affatto vero che gli Stati Uniti (la prima potenza economica del pianeta!) abbiano un sistema sanitario che abbandona a se stessi 40 milioni di cittadini, lasciati senza cure, espulsi da un mercato selvaggio e assassino. E’ vero piuttosto che gli USA hanno il miglior sanitario del mondo che è tale proprio perché affidato alla libera iniziativa economica dei privati. Del resto, credo che nessun americano dotato di senno, posto di fronte all’alternativa, preferirebbe importare il nostro servizio sanitario pubblico. Un sistema che certo prevede la copertura universale e gratuita per tutti ma poi ti ammazza per via della malasanità o delle infinite liste di attesa. E del resto questa non è mai stato l’obiettivo neanche del più radicale tra i democratici. Lo stesso sistema assicura, attraverso due generosi programmi pubblici (il Medicare ed il Medicaid) l’accesso al sistema sanitario per coloro che per ragioni di reddito, di età o di patologia rischierebbero altrimenti di restarne esclusi.

I mitici 40 milioni di americani senza sanità sono nella stragrande maggioranza dei casi persone tra i 20 ed i 40 anni di età che, pur potendolo fare, ritengono di non assicurarsi perché liberamente ritengono che il costo non compensi i benefici. Naturalmente è ben possibile che il sistema, come tutte le cose del mondo, sia perfettibile, ad esempio correggendo i requisiti di ammissione ai programmi pubblici di assistenza o introducendo regole più stringenti per obbligare le compagnie assicuratrici a comportamenti non discriminatori. E’ però lecito dubitare che per correggere tali aspetti fosse necessario montar su una simile campagna mediatica e creare aspettative di una rivoluzione prossima ventura.

Del resto “il primo passo della rivoluzione” (come titola Il Riformista di ieri) si riduce in realtà nell’introduzione di un’assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti ed in una sventagliata di aumenti fiscali a carico dei cittadini e dei datori di lavoro. Un aumento della pressione fiscale diretta e di quella indiretta (quella delle polizze assicurative obbigatorie) che, discutibile in sé, non appare certo la scelta più felice nel momento in cui, terminata la fase più dura della crisi, il mondo occidentale si aspetta una ripresa economica che certo non può fare a meno della locomotiva americana. Gli unici beneficiari certi della rivoluzione obamiana sono proprio le compagnie assicuratrici che si apprestano ad incassare i premi di 40 milioni di americani che di cure mediche hanno poco bisogno.

Superate le perplessità di merito, in noi subentra un senso di ammirazione, quasi di invidia. Ammirazione, in primo luogo, per il funzionamento del sistema democratico americano. Un sistema nel quale un Presidente che ha costruito la propria legittimazione popolare proprio sul tema della riforma sanitaria, dopo un serrato confronto in Parlamento, riesce a portarla a casa in  tempi ragionevoli. E riesce a farlo senza dover sottostare alla logica vischiosa e perversa dello spirito bipartisan. La riforma la votano solo i democratici (e neanche tutti) e loro se ne assumono per intero la responsabilità. Ma ammirevole è anche la capacità degli americani di tener saldi i principi di un sistema liberale. Anche dopo la riforma, la sanità statunitense rimane gestita e finanziata dai privati. Lo Stato interviene solo come regolatore o come erogatore di sussidi in favore di coloro che non sono economicamente in grado di partecipare da soli al mercato.

Ed, anzi, a questo punto ci salta in mente un pensiero impertinente. Se è vero che quella di Obama è “la più bella pagina del riformismo” (come titola l’Unità di ieri), perché allora non proviamo ad importare in Italia il modello obamiano di sanità, sostituendo quel carrozzone del Servizio Sanitario Nazionale in grado solo di produrre voragini di debiti e malasanità con un bel sistema di sanità privata, assicurazioni individuali e sussidi pubblici per i meno abbienti? Visiti gli applausi e le lodi generalizzate che ha riscosso il Presidente Obama non dovrebbe essere difficile riscuotere un consenso bipartisan su una proposta del genere. Che ne dicono i laudatores della rivoluzione obamiana, i cultori del politicamente corretto, i cinefili fans di Michael Moore?

La verità è che per quanto possano spostarsi a sinistra, per quanto possano socialdemocratizzarsi, gli Stati Uniti restano sempre un punto di riferimento per i liberali – e non certo per i liberal – di tutto il pianeta. Ed è per questo che hanno dominato, dominano e (presumibilmente) continueranno per un bel pezzo a dominare il mondo.

l’Occidentale

24 Marzo 2010