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l meridionalismo non è mai stato vittimismo. Oggi, invece, lo si vorrebbe riaccreditare come tale. E – cosa ancor più singolare – se ne atteggiano a paladini i cosiddetti “governatori” delle Regioni del Mezzogiorno.

In opposizione, ma per molti versi anche in analogia, al “ricatto leghista” si parla sempre più spesso di un partito del Sud. Vogliono farlo Lombardo e Micciché da una parte, Vendola e Bassolino dall’altra. Un secolo dopo Il Mezzogiorno e lo Stato italiano di Giustino Fortunato, si torna in qualche modo a evocare Borbonia e Padania.

In Campania la Regione ha destinato quattrocentoventisei posti di “operatori per la sicurezza turistica urbana” a una cooperativa di ex detenuti. Insomma, “ronde partenopee” invece di “ronde padane”. Solo che per queste ultime, al posto di ex detenuti, sono previsti ex poliziotti reclutati dallo Stato e non dalle Regioni.

La verità è che a suo tempo non fu il leghismo a cancellare il meridionalismo dagli orizzonti della politica nazionale. Furono se mai, negli anni ’70, le Regioni ed il regionalismo. Venuta poi meno ai suoi compiti, la Regione si è messa a cercarsene altri. Ne è derivato un regionalismo di potere, senza respiro e senza prospettiva: quel che temevano i Fortunato e i Nitti ogni volta che per il Mezzogiorno ci si affidava agli “enti locali”.

Quando si realizzarono, le Regioni parvero la grande occasione riformatrice della democrazia italiana. Esse dovevano essere strumento indispensabile della politica di piano e del decentramento amministrativo: le circoscrizioni di “giusta ampiezza” per una più razionale organizzazione e distribuzione territoriale dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione. Da esse si presumeva scaturisse una programmazione in vista di un più equilibrato sviluppo economico e civile (più equilibrato dal punto di vista regionale, appunto). Vi si affidò poi la speranza in una decongestione, e quindi, in uno snellimento della legislazione.

Di questo disegno oggi è difficile, nella Regioni così come sono, ritrovare la trama. In concreto, le Regioni rappresentano spesso una ulteriore mediazione fine a se stessa, che complica anziché semplificare i processi decisionali. La settorializzazione è ancora un dato dominante della nostra amministrazione. Solo con molta fantasia si può parlare di politica regionale della spesa. Alla settorializzazione dei capitoli di spesa per ministero si è affiancata la settorializzazione di assessorati e apparati fra loro impenetrabili.

Venuta meno ai suoi compiti di programmazione, non esclusivamente per sua inadempienza, la Regione si è messa a cercarsene altri di gestione, qui per sua scelta sbagliata. Se si vuole legiferare e programmare di più, si deve amministrare e gestire di meno.

Di fatto le Regioni hanno vissuto in questi anni fra due opposte sollecitazioni: quella di un meccanismo statuale fortemente centralizzato, da un lato; quella di un sistema di autonomie locali estremamente debole e frammentato, da un altro lato. Ecco perché, insieme alla riforma Gava, sarebbe stato alla fine degli anni ottanta altrettanto urgente varare il disegno di legge di riforma dell’ordinamento regionale, che fu presentato in Parlamento dall’allora ministro Maccanico, con lo specifico intento di recuperare dimensione politica e capacità programmatoria. Non si tratta di suggestioni tecnocratiche. Ma si tratta di ribaltare quell’arroccamento delle Regioni in sé stesse, che ne ha finora offuscato l’immagine.

Attribuire alle Regioni la prerogativa di “forze bilancianti” di una Repubblica presidenziale potrebbe rivelarsi astratto. Ma continuare ad identificare nelle Regioni un centro di negoziazione spartitoria fra partiti, nella convinzione che gestire sia sempre possibile e programmare sia ormai impossibile, è l’ennesimo contributo al malessere delle nostre istituzioni. Nella distribuzione di una fetta di spesa pubblica, che si aggira attorno al trenta per cento di quella nazionale, le Regioni non possono essere né sentirsi “irresponsabili”. Ed è stato irresponsabile del ruolo, nella discussione politica e costituzionale degli ultimi anni, aver sacrificato ogni valutazione critica delle Regioni in favore di una confusa esaltazione del federalismo.