17 Agosto 2007  

Sesto numero della rivista Ventunesimo Secolo

Redazione

Anno III – n. 6 – ottobre 2004
Luiss University Press

L’ultimo numero della rivista “Ventunesimo Secolo” propone un dossier, articolato in alcuni saggi a firma di esperti nazionali e internazionali, incentrato sulla “questione tedesca” a partire dal secondo dopoguerra. La Deutsche Frage è analizzata attraverso la rilettura di alcuni momenti cruciali della lunga transizione tedesca, e della gestazione della nuova Germania riunificata, sui cui prodromi getta luce un approfondito studio della politica tedesca di Gorbaciov.
Alla storia delle due Germanie viene idealmente affiancata la storia delle due – e più – Cine, figlie anch’esse degli anni del secondo conflitto mondiale. Così, l’esempio tedesco può rivelarsi prezioso per comprendere ciò che accade – e ciò che potrebbe accadere in un futuro prossimo – sulle sponde asiatiche del Pacifico, in cui una nazione divisa in due stati si confronta sulla questione dell’identità, e sul dilemma della riunificazione.
Presentiamo qui di seguito l’editoriale, a cura di Gaetano Quagliariello e Victor Zaslavsky, che apre questo numero di “Ventunesimo Secolo”.

Tra le più serie conseguenze geopolitiche prodotte dal secondo dopoguerra e dalla guerra fredda, va senz’altro annoverata la divisione di alcune nazioni – Germania, Cina e Corea – ciascuna in due nuove entità statuali, inglobate in sfere d’influenza contrapposte. Per tutta la durata del conflitto bipolare, queste «nazioni divise» hanno rappresentato alcuni dei punti più caldi della politica internazionale. E il superamento della guerra fredda ha lasciato in eredità la questione – tra le più spinose – proprio della riunificazione di quelle nazioni, e dei metodi attraverso i quali consolidare un nuovo processo di state-building. I saggi e i documenti pubblicati in questo numero offrono, a tal proposito, la possibilità di un’utile comparazione storico-politologica tra la riunificazione tedesca, realizzata con successo, e quella cinese, che invece pende come una incombente minaccia sulla scena internazionale.

I contributi sulla Germania mettono in risalto, innanzitutto, gli attori principali del processo di riunificazione tedesca. In primo luogo Helmut Kohl, con il suo partito e il suo governo, mossi dalla convinzione che la riunificazione incarnasse l’interesse nazionale tedesco al suo apice e, per questo, dovesse ritenersi il compito storico di ogni governo della Germania occidentale. D’altro canto, tutta la stagione della Ostpolitik e, più in generale, i rapporti con i sovietici erano stati impostati alla luce di questa definizione dell’interesse nazionale. Subito dopo va considerato il ruolo svolto dalla popolazione tedesca, in particolar modo quella della Rdt. Lo chiarì bene, nell’aprile del 1990, de Maizière, il successore di Honecker al vertice della Rdt, quando nel corso di un incontro con Gorbaciov affermò: «La schiacciante maggioranza del popolo desidera che la Germania sia riunificata prima possibile». Non si può ignorare, inoltre, il ruolo svolto dai governi dell’Europa occidentale. La loro politica fu, per l’essenziale, una non politica. A differenza degli americani, che appoggiarono la politica di Kohl essenzialmente al fine di rafforzare gli strumenti comuni della sicurezza occidentale (vi era la prospettiva di scacciare dal centro dell’Europa mezzo milione dei militari sovietici e di assicurarsi l’entrata della Germania unita nella Nato), gli europei l’avversarono. Il loro atteggiamento negativo fu motivato sia dall’esperienza storica sia dal timore di vedere sorgere sul vecchio continente un temibile concorrente. La realtà è che nessuno in Europa voleva la riunificazione, ma nessuno osava dirlo apertamente. L’unica eccezione a questa reticenza fu rappresentata dall’allora ministro degli Esteri italiano Andreotti, che cinque anni prima del crollo del Muro di Berlino, in un momento di rara franchezza, affermò nel corso di un dibattito inserito nel programma di una «Festa dell’Unità»: «il pangermanesimo deve essere superato: esistono due Stati tedeschi e tali devono rimanere!». Ostacolare apertamente la riunificazione, da un certo momento in poi, avrebbe però significato andare contro tutti i principi democratici, violare la volontà del popolo tedesco e infrangere l’intera struttura dei rapporti dell’alleanza atlantica. L’Europa rimase così spettatore impotente, incapace di influenzare il corso degli avvenimenti. E quell’impotenza, determinata dal prevalere di preoccupazioni nazionali, avrebbe simboleggiato l’impossibilità di guadagnare un’autonoma e unitaria configurazione politica, nonostante la fine delle alleanze obbligatorie indotte dalla persistenza del pericolo sovietico. Infine, va considerato proprio il ruolo che giocò l’élite politica sovietica nel crepuscolo dell’Unione. Il problema è trattato esaustivamente nel saggio di Mikhail Narinsky. Esso ricostruisce, innanzitutto, il duro scontro che si svolse in seno alla leadership sovietica tra il gruppo di Gorbaciov e coloro i quali si opponevano alla riunificazione. E chiarisce come la maggioranza della classe politica sovietica, impreparata sia psicologicamente sia concettualmente al crollo dell’Impero, non potesse abbandonare d’un tratto l’antico orgoglio imperiale, né tanto meno mettere in discussione il ruolo di grande potenza. La sua proposta, per questo, fu di utilizzare il contingente militare sovietico in Germania come strumento di pressione politica sui leader dei due Stati tedeschi, «tirare sul prezzo», bluffare e mercanteggiare senza il minimo rispetto per la volontà popolare dei tedeschi.

Questa disposizione degli attori politici consente di apprezzare come, nella congiuntura data, il modo nel quale Kohl e Gorbaciov esercitarono la loro leadership divenne un fattore decisivo. Kohl agì con coraggio, determinazione e immaginazione. Percepì le turbolenze socio-economiche dell’Unione Sovietica e vide con chiarezza lo scontro interno alla sua nomenclatura. E intuendo la fragilità della posizione di Gorbaciov, puntò su una riunificazione in tempi rapidi. Due principali linee direttrici guidarono questa sua politica: convincere il leader sovietico del collasso totale del regime della Rdt e dei rischi del caos conseguente; promettere di soddisfare le richieste sovietiche di prestiti al fine di finanziare il ritiro delle truppe dalla Rdt, la smobilitazione di gran parte degli ufficiali e l’alleviamento delle conseguenze dell’imminente catastrofe economica. Egli, d’altro canto, rifiutò con forza l’irrealistica proposta sovietica di una doppia adesione della Germania unificata alla Nato e al Patto di Varsavia.

L’importanza del ruolo di Gorbaciov in quanto riformatore la si può apprezzare a partire proprio dal 1989, quando egli, seppur da una posizione di minoranza, si rifiutò di continuare a percorrere la strada della guerra fredda, di utilizzare la forza per definire i rapporti con i paesi dell’Europa orientale, e di opporsi all’unificazione della Germania. Fu questo risoluto rifiuto dell’uso della forza a permettere al cancelliere Kohl, con l’appoggio americano, di sfruttare le circostanze, divenute improvvisamente favorevoli, per realizzare l’antico obiettivo della politica estera di Bonn. La divisione della Germania si rivelò d’un tratto superabile. Al cospetto della forte volontà politica dimostrata dal cancelliere tedesco Kohl e dal presidente americano Bush, ma ancor più dalla popolazione della Germania orientale, di porre fine alla divisione della Germania, di abbattere il Muro di Berlino per uscire dal fallimentare «campo socialista», Gorbaciov prese la decisione più importante di tutta la sua politica estera: cedere davanti alla volontà popolare e lasciare la popolazione della Germania orientale libera di scegliere il suo futuro. Egli in tal modo sfidò le certezze dei politici e dei diplomatici dell’Europa occidentale, basate sulla difesa ferrea dello status quo della divisione dell’Europa e della Germania e sull’intangibilità degli accordi di Yalta.

Sfidò anche – e non solo in patria – influenti leader del suo stesso campo. L’irriducibile Eric Honecker aveva preso le distanze dal corso della perestrojka in modo spettacolare e, con un famigerato gesto, aveva approvato la strage sulla piazza Tien-an-men. Al cospetto delle manifestazioni oceaniche di Dresda e Lipsia, davanti all’esodo di massa dei tedeschi orientali e all’ormai imminente sollevazione popolare, chiese con una grande insistenza il permesso sovietico per usare le truppe contro i dimostranti, nonché di poter contare sull’appoggio militare dell’Urss per stroncare la sollevazione popolare. Durante la visita a Berlino Est, il 6 e 7 ottobre 1989, Gorbaciov ammonì Honecker che «la vita avrebbe punito i ritardatari» e gli comunicò che l’esercito sovietico non sarebbe intervenuto per aiutare il regime, come aveva fatto nel 1953. Le truppe sovietiche ricevettero l’ordine di astenersi da qualsiasi azione repressiva contro i dimostranti.

Si possono avere pareri differenti ed anche fortemente scettici sull’opera complessiva di Gorbaciov e sull’illusorietà della sua riforma del comunismo per linee interne. Non gli si può negare, invece, il merito enorme di aver riformato la politica estera sovietica quando questo mutamento risultava tutt’altro che scontato. Se il presidente dell’Urss avesse agito diversamente, il governo di Honecker non avrebbe esitato di organizzare una nuova Tien-an-men nel cuore dell’Europa, prolungando così al prezzo di migliaia di vite umane l’agonia del blocco sovietico. L’averlo evitato vale a Gorbaciov un posto nel Pantheon dei maggiori statisti del secolo.

Una delle principali lezioni da trarre dalla riunificazione tedesca è, dunque, l’importanza di leadership in possesso di una chiara visione dell’interesse nazionale, nonché della volontà di risolvere i problemi in modi pacifici, consensuali e democratici. Oggi che il mondo si trova al cospetto di un altro problema ereditato dalla guerra fredda – i tentativi del vertice della Repubblica popolare cinese di riappropriarsi dell’isola di Taiwan e la conseguente esplosione dell’indipendentismo taiwanese – questa lezione torna d’attualità. Nel suo ricco e informato articolo Jiang Yi-huah, professore dell’Università di Taiwan, descrive una manifestazione di protesta contro la minaccia cinese di usare la forza militare nel caso Taiwan avesse dichiarato l’indipendenza. Si è alla fine del febbraio 2004: una catena umana di oltre due milioni di persone, con il presidente Chen a capo, attraversa l’intera isola. A un’ora preordinata i dimostranti si sono voltati verso la Cina e hanno gridato «No!». Poi, si voltano verso l’interno dell’isola e gridano «Si!». I nazionalisti taiwanesi chiedono il riconoscimento internazionale di Taiwan come stato sovrano. Jiang Yi-huah analizza l’estrema complessità del problema dell’identità nazionale taiwanese, ma sottolinea che il numero degli abitanti dell’isola che si sentono cinesi diminuisce rapidamente, mentre quello dei «taiwanesi» aumenta costantemente. Una maggioranza crescente si esprime a favore dell’indipendenza piuttosto che della riunificazione anche se, realisticamente, di fronte alla prospettiva dell’uso della forza da parte della Cina preferisce lo status quo: un’indipendenza di fatto senza riconoscimento internazionale.

In questa difficile situazione, negli Stati Uniti sia la componente democratica che quella repubblicana condividono la medesima politica: proteggere l’isola di Taiwan con la forza militare – la Sesta flotta si trova sempre nei pressi – ma, nel contempo, dissuadere l’ élite politica taiwanese dal bruciare le tappe verso l’indipendenza, sì da mantenere lo status quo il più a lungo possibile. La Comunità europea, da parte sua, potrebbe trovare lumi per la sua politica verso Taiwan nell’esperienza della riunificazione tedesca, tenendo presente però una differenza cruciale del valore della riunificazione nei due casi. Nel caso tedesco «riunificazione» ha significato promuovere la democrazia, mentre nel caso di Taiwan potrebbe significare una annessione e una palese violazione della volontà popolare. Soltanto da un auspicabile processo di democratizzazione del sistema autoritario cinese potrebbe pervenire l’indicazione che è giunto il momento nel quale il problema della riunificazione tra la Cina e Taiwan può trovare una soluzione pacifica e conforme alla democrazia. I paesi democratici, d’altro canto, posseggono un chiaro indicatore dell’evoluzione democratica della Cina: il trattamento che la sua leadership riserva a Hong Kong. Come ha dimostrato Peter Baehr nel suo articolo, proprio l’atteggiamento verso la democrazia di Hong Kong permette di indicare la direzione generale dello sviluppo politico cinese. Finché il governo di Pechino conserverà l’ordine democratico di Hong Kong (anche se solo per dimostrare che il modello «uno Stato due sistemi» può funzionare), il timore di Taiwan di perdere le libertà democratiche non sarà giustificato. Viceversa, ogni attacco alla fragile democrazia di Hong Kong dimostrerebbe a Taiwan e a tutto il mondo l’impossibilità di una riunificazione democratica, rafforzando le forze indipendentiste.

Ancora una volta, la promozione dell’ordine democratico appare l’unica possibilità per contribuire alla risoluzione di conflitti così difficilmente risolvibili come quello tra la Cina e Taiwan. Gli Stati Uniti lo hanno capito. Sarebbe importante che la nuova Europa unita non li lasciasse soli in questa difficile operazione, che è contemporaneamente di «tenuta» e di «cambiamento». Vi sono due miopie che, in tal senso, vanno combattute: quella di ritenere lo sviluppo economico della Cina più importante ed influente del suo sviluppo politico in senso democratico; e quella di ritenere questi problemi lontani e, per questo, fuori dalla propria giurisdizione. Queste due tendenze corrispondono a delle precise, ricorrenti tentazioni dell’Europa: privilegiare l’interesse più prossimo al benessere immediato, e per questo rifugiarsi in un inedito isolazionismo (salvo poi contestare ad altri presunti «unilateralismi»). Sono tentazioni che vanno sconfitte. Alla luce di ciò, o l’Europa riuscirà a comprendere quanto la Cina sia, in tutti sensi, vicina, o scriverà da sé l’ennesima pagina della propria ineluttabile decadenza.

Gaetano Quagliariello
Victor Zaslavsky