25 Luglio 2008  

Solo con la morte dell'ideologia europea l'Europa potrà vivere

Redazione

VicePresidente vicario del Gruppo PDL al Senato

Signor Presidente, colleghi senatori, signori del governo, troppo a lungo in Italia l’europeismo è stato inteso come qualcosa di scontato, da non mettere in discussione, al punto da far considerare qualsiasi accento critico come una sorta di eresia. Se oggi si è scelto di dare centralità a questo dibattito è proprio perché dobbiamo iniziare a ritenere l’europeismo una cosa seria; un obbiettivo da realizzare, non una formula sacrale priva di contenuti. Dobbiamo rifuggire le formule retoriche e le adesioni acritiche che hanno allontanato l’Europa dal sentimento popolare e rischiano di ucciderla trasformandola in una grande authority lontana dai cittadini, quando non addirittura burocraticamente ostile. Prendendo anche atto che se oggi la ratifica del Trattato di Lisbona ha assunto questa centralità nel dibattito pubblico è perché altrove il malessere diffuso ha trovato i canali per esprimersi formalmente, mettendo a repentaglio l’intero percorso di integrazione.

Per comprendere appieno da dove origina la crisi dell’ideologia europeista, e smentire i tanti commentatori che su questo terreno hanno inteso vaticinare l’avvento di un’insanabile frattura nella maggioranza di governo, occorre fare qualche passo indietro, e risalire fino alle radici di quell’europeismo italiano che lungi dall’avere una matrice unitaria, conobbe due fonti d’ispirazione profondamente diverse.

La prima fonte d’ispirazione fa capo ad Alcide De Gasperi e alla tradizione del popolarismo mitteleuropeo. Essa, di fronte alle tragedie che hanno marcato a fuoco il Novecento, scorgeva nella tradizione della civiltà europea il tessuto connettivo in grado di sanare le ferite che il secolo dei nazionalismi aveva inferto sul corpo del Vecchio Continente. In quella scelta si avvertiva il dramma biografico di chi, come De Gasperi, nel corso della sua esistenza si era trovato ad essere cittadino in differenti Stati, pur sentendosi sempre italiano. E vi si percepiva anche un retaggio dell’irripetibile esperienza dell’Impero Austroungarico nella sua fase finale: la capacità di sentirsi parte di uno stesso corpo pur nel rispetto delle diverse provenienze nazionali.

Tutto questo all’inizio non ebbe nulla a che fare con un altro europeismo che nacque, grazie ad Altiero Spinelli, nelle solitudini di Ventotene. Immaginando l’Europa da quell’isola non si pensava ad un recupero del passato, tantomeno alla forza di una tradizione da resuscitare. L’Europa, piuttosto, era pensata come rinnovamento di un’esigenza rivoluzionaria al cospetto di altre rivoluzioni ormai considerate fallite. Si rilegga il manifesto di Spinelli e Rossi, e si scoprirà di quanta indisponibilità nei confronti del liberalismo esso era nutrito. L’Europa di Spinelli, almeno all’inizio, rappresentava l’uscita di sicurezza dall’ideologia comunista ritenuta sconfitta, verso una nuova utopia rivoluzionaria. E a confortare quest’interpretazione giunge inaspettato uno scritto di Giorgio Ruffolo nel quale l’unità europea viene classificata tra le buone cause della sinistra assieme al risorgimento e alla resistenza. Un mito di sostituzione, insomma, che si afferma anche a dispetto della realtà storica, per la quale ancora agli inizi degli anni ’80 a sinistra erano ben forti e radicati sentimenti antieuropei.

Fin qui, dunque, le due differenti matrici dalle quali l’europeismo italiano ha tratto in origine la sua ispirazione. Col tempo, anche e soprattutto in virtù delle necessità imposte dalla guerra fredda, questi due europeismi si contaminarono a vicenda. Proprio questa reciproca influenza consentì all’unità europea di progredire, e convinse famiglie politiche originariamente ostili all’idea di Europa a farsene paladine.

Alla fine della guerra fredda, e col venir meno delle costrizioni che essa aveva imposto, però, le due matrici dell’europeismo italiano sono tornate a rivendicare i loro diritti di primogenitura. La divaricazione è tornata ad approfondirsi. E a me pare che ai giorni nostri sia sempre più evidente una contrapposizione tra chi, da una parte, vuole fondare l’Europa sulla riscoperta di un patrminio comune, sull’identificazione di quelle correnti popolari e persino populiste che attraversano il corpo del Vecchio Continente, sul rispetto delle specificità; e chi, dall’altra parte, la immagina invece come una costruzione pianificata dall’alto, basata sull’istituzione di diritti che trasformino le consuetudini sociali, anche a costo di relativizzare la centralità della sovranità popolare e delle sue espressioni. Tradotto con formula tanto icastica quanto imprecisa, si potrebbe dire che a contrapporsi sono l’Europa dei popoli e quella dei burocrati.

Il fallimento della prima Convenzione non è estraneo alla percezione di questa frattura. Il risultato, all’epoca, fu un testo, denominato “Costituzione”, eccessivamente lungo e ampolloso; la previsione di un catalogo di diritti di matrice post-socialista che privilegiando un’idea di cittadinanza europea fondata sulla produzione e sulla esigiiblità di nuovi diritti anziché sul rispetto di una storia comune e sulle specificità dei diversi Stati-nazione, ha di fatto rappresentato l’alternativa al riconoscimento delle comuni radici giudaico-cristiane; fu, infine, la controversa elaborazione di due preamboli immaginati come carta d’identità nella quale, però, non si è avuto il coraggio di indicare il nome dei propri genitori.

Per diversi aspetti il Trattato di Lisbona rappresenta un primo positivo passo verso il superamento di questi vizi originari. E’ stato evitato un preambolo che sancisse il primato dell’Europa dei diritti; si sono messi da parte inni, bandiere e fanfare; è stata riconosciuta la centralità dei Parlamenti nazionali; la Carta dei diritti è stata declassata a protocollo aggiuntivo. Si è immaginato che su alcune questioni un accordo rafforzato tra alcuni Stati possa superare l’immobilizzante pretesa di unanimità dei Ventisette. E ancora. Sono venute meno alcune pericolose finzioni, come dimostra il trasformazione del previsto Ministro degli Esteri in Alto Rappresentante, segno di una presa d’atto che una politica estera più unitaria, senz’altro auspicabile, la si potrà conquistare a piccoli passi solo dopo aver riconosciuto che oggi essa latita. Infine, è stata concessa agli Stati membri la possibilità di sottrarsi a decisioni comuni in materie quali la giustizia e la polizia, arginando il rischio che decisioni fondamentali per la libertà dei cittadini possano essere assunte in sede europea da organismi non legittimati in alcun modo dalla sovranità popolare.

Restano alcuni dubbi, soprattutto per quel che riguarda la struttura istituzionale europea e il rapporto tra il Consiglio e la Commissione. Non è tuttavia sfuggendo al confronto che si può costruire qualcosa, quanto piuttosto dimostrando con i fatti, con il buon senso e con la buona volontà che è possibile resuscitare quella positiva sintesi tra differenti europeismi che per tanti anni ha consentito all’Europa di essere percepita come non ostile agli interessi autentici dei suoi cittadini.

Perché l’Europa dei popoli nasca davvero, però, è necessario essere consequenziali. E a tal proposito, signor Presidente, mi sia consentito richiamarmi ad alcuni temi che attraverseranno il nostro dibattito pubblico nei prossimi mesi. Perché vedete, signor Presidente, onorevoli colleghi, signori del governo, sarebbe opportuno che chi ha veramente a cuore l’Europa e le sue istituzioni si impegnasse affinché la rappresentanza italiana al Parlamento di Strasburgo non sia caratterizzata da quella frammentazione partitica che in Italia, confortati dai cittadini, stiamo cercando di lasciarci faticosamente alle spalle. Allo stesso modo, chi come noi crede fermamente nel riferimento ai principi ispiratori della grande famiglia del popolarismo, e su di esso ha gettato le basi per la costruzione di un nuovo soggetto politico a vocazione maggioritaria, sa che il percorso di integrazione passa anche attraverso la costruzione di partiti realmente europei, e per questo non può non augurarsi che anche gli avversari possano presto trovare una casa comune.

Noi che crediamo nell’Europa di De Gasperi, in un’Europa che nasca dal basso, dalla riscoperta di una comune matrice culturale, e non dall’imposizione di scatole vuote senz’anima e senza identità, vogliamo che l’Europa di De Gasperi e l’Europa di Spinelli possano tornare a contaminarsi e a dialogare, respingendo con forza ogni tentazione ideologica che ha già clamorosamente fallito. Perché, signor Presidente, colleghi senatori, signori del governo, è solo con la morte dell’ideologia europea che l’Europa potrà cominciare veramente a vivere. Ed è con queste propensioni e queste speranze che il gruppo del PdL voterà a favore della ratifica.