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Signor Presidente, onorevole Ministro, pochi giorni dopo aver venduto un patrimonio comune, un bene inestimabile come la pubblica amministrazione, la maggioranza sacrifica, sull’altare della propria sopravvivenza, un’esigenza fondamentale per ogni cittadino: la questione percepita dagli italiani come urgenza primaria e indeferibile, il tratto che fa di un Paese un Paese civile. Stiamo parlando della sicurezza, di ciò che consente al cittadino la libertà dalla paura.

Che il problema non fosse una priorità per questo Governo lo si era capito da tempo, tanto è vero che al momento di affrontare la questione, nel tentativo di arginare il bollettino di guerra che ormai quotidianamente le cronache ci consegnano, l’Esecutivo non aveva ritenuto di dover legiferare per decreto ma, dopo rinvii e le solite estenuanti trattative interne alla maggioranza, aveva partorito un pacchetto da affidare con tutta calma all’esame del Parlamento. Finché l’agenda, purtroppo, alla fine l’ha dettata la cronaca nera.

Travolto dalla drammatica efferatezza del delitto di Tor di Quinto e incalzato dal sindaco Veltroni, che di quella tragedia – almeno in termini di immagine – rischiava di pagare il prezzo più alto, il Governo si è deciso a decretare d’urgenza. Allora si poteva avere un sospetto, oggi purtroppo vi è certezza.

Vi sono, signor Ministro, aspetti della vita sociale – tra questi la sicurezza – che dalla politica dovrebbero essere considerati sacri, non negoziabili, o quantomeno non declinabili in termini di mera immagine.

Ebbene, di fronte alla drammatica insufficienza di questo decreto, dobbiamo affermare che la tragedia che ha stroncato una vita e sconvolto la città di Roma è stata fatta scadere a questione di immagine.

Se questi sono i primi frutti dell’influenza del “veltronismo” sulla vita politica nazionale, si deve prendere atto che si tratta di frutti avvelenati. Infine, sembrava che il topolino, frutto di tanto travaglio, avrebbe potuto costituire un primo, seppure parziale, terreno di confronto con l’opposizione. Niente da fare. La tolleranza zero è durata il volgere di qualche telegiornale. E questa volta il pendolo di una maggioranza, paralizzata da un nefasto dualismo, si è fermato sul lato sinistro.

Ha vinto l’Italia dell’impunità, formale e sostanziale, al cospetto della quale la Spagna di Zapatero, così spesso evocata quando fa comodo, appare come una inespugnabile fortezza militare. L’Italia che rifiuta la realtà, per privilegiare l’ideologia. L’Italia di coloro che da una immigrazione selvaggia e incontrollata sperano cinicamente di lucrare vantaggi per la propria parte, soffiando sul fuoco del malcontento dei tanti cittadini che al proprio diritto a vivere sicuri vedono sistematicamente anteporre un ipocrita richiamo ad un malinteso senso di solidarietà nei confronti di persone che dal nostro Paese non possono avere né un tetto né un lavoro e che anche per questo, nella stragrande maggioranza, sono portate a delinquere. Si tratta di persone che i Paesi di provenienza, anche la Romania, di fatto mettono alla porta, grazie ad una legislazione ben più severa della nostra e che da noi approdano indisturbate, commettono reati, certe di sfuggire a qualsiasi sanzione e sicure del fatto che ad esse non verrà chiesto neppure il minimo che si pretende da ogni cittadino italiano: dimostrare di avere un domicilio.

Nel frattempo, è bene ricordarlo, con i tagli che la finanziaria in discussione sta apportando a tutto il settore sicurezza tranne – guarda caso – alla Guardia di finanza, il Governo ha perso un’altra buona occasione per invertire la tendenza. Da quando Romano Prodi è a Palazzo Chigi, i fondi per i rimpatri degli immigrati sono diminuiti del 16,19 per cento, passando dai quasi 12,5 milioni del 2006 ai quasi 10,5 milioni di quest’anno. Valore che viene confermato anche dalla finanziaria attualmente in discussione. Il dato non è nostro. Emerge dalla relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato al decreto che stiamo discutendo.

Ma di cosa ci possiamo meravigliare, signor Presidente? C’è ben poco da stupirsi, dal momento che la progressiva disarticolazione messa in atto dal Governo in tema di sicurezza non è altro che la coerente, scientifica conseguenza di quello che l’Unione aveva promesso nel suo programma di Governo. Su questo aspetto ha purtroppo ragione la sinistra radicale: era già tutto scritto, dallo stravolgimento della normativa sull’immigrazione ai tagli per il comparto del Viminale, dalle misure intimidatorie ai danni delle Forze di polizia impegnate nell’ordine pubblico alla richiesta di un processo politico e mediatico sulla pubblica piazza per gli agenti del G8 di Genova: nel tomo del programma elettorale dell’Ulivo c’era tutto questo.

E torniamo, infine, al decreto che ci occupa. In Commissione affari costituzionali – l’ha detto, prima di me, il senatore Saro – avevamo coltivato un ultimo residuo barlume di speranza affinché non fossero messi da parte i margini per poter migliorare il testo, apportando di comune accordo con la maggioranza delle modifiche in nome della sicurezza dei cittadini (che dovrebbe essere ancora interesse di tutti). Sembrava che con l’accordo del relatore e il parere favorevole del Governo si potesse quantomeno definire la situazione di un cittadino di un Paese comunitario che entra in un altro Stato europeo senza dichiararsi né registrarsi. Ma non se n’è fatto nulla.

La sinistra massimalista, che resta l’autentica azionista di riferimento del Governo Prodi, facendo la vittima per lo smacco subìto sul Protocollo, si è immediatamente fatta risarcire a scapito della sicurezza dei cittadini. È bastata una riunione di maggioranza per far saltare gli emendamenti di minima ragionevolezza, che avrebbero potuto trovare da parte nostra una disponibilità ad interloquire. Addirittura, il decreto arriva in Aula senza un relatore. 

Questo decreto, signor Presidente, è una sconfitta non per una parte politica, ma per tutti, per tutti i cittadini: un inutile pannicello caldo e una ennesima presa in giro – così rischia di essere letta – da parte della maggioranza e del Governo.

Ministro Amato, me lo consenta come avversario leale e anche in nome della nostra colleganza: ho l’impressione che dal giorno in cui si è insediato al Viminale non abbia mai fatto nulla per nascondere una professionale insofferenza per le questioni delle quali avrebbe dovuto occuparsi. Non c’è mai stato un Ministro dell’interno che ha consentito con tanta tranquillità che per due anni di seguito la legge finanziaria falcidiasse le risorse per il proprio comparto. C’è un’etica della responsabilità nei confronti della propria maggioranza e della propria parte politica, ma ce n’è una più forte nei confronti del proprio Paese. Se la sicurezza non le interessa, perché non chiede – magari a gennaio – d’emigrare ad altro Ministero?

Ci sono cose che si potevano prevedere perché scritte nel “libro dei sogni” dell’Unione, ma poiché le politiche viaggiano sulle gambe degli uomini, altre non le avremmo immaginate. Per la stima e la considerazione che portiamo verso alcuni uomini della sinistra, ministro Amato, non avremmo pensato che un uomo avveduto come lei accettasse di sottoscrivere insieme al ministro Ferrero un disegno di legge sull’immigrazione che sarebbe grottesco, se non fosse drammatico nelle sue prevedibili conseguenze.

Tutto ci saremmo aspettati, fuorché la circostanza che neanche la drammaticità della nuda cronaca avrebbe indotto nei rappresentanti più moderati della maggioranza di Governo un sussulto di dignità, che sarebbe doverosa anche per scongiurare quei fenomeni di «giustizia fai da te» che rappresentano la punta di un iceberg di una tentazione ben più ampia: se questa dovesse non essere arginata in tempo, l’Italia scivolerebbe nella barbarie, ma la responsabilità politica cadrebbe su di voi e sulla vostra pavidità.

(Intervento del Senatore Gaetano Quagliariello – Legislatura 15º – Aula – Resoconto stenografico della seduta n. 258 del 29/11/2007)