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Nel brevissimo tempo a disposizione, il Gruppo di lavoro sulle riforme istituzionali creato dal Presidente della Repubblica il 30 marzo 2013 ha completato il proprio compito consegnando al Paese, il successivo 12 aprile, una significativa Relazione Finale.

In premessa i componenti del Gruppo segnalano che le soluzioni prospettate rappresentano un punto di mediazione, generalmente condiviso, salve poche dissenting opinion. Considerato il clima complessivo che sta vivendo l’Italia, e valutata la diversa provenienza culturale dei componenti il Gruppo di lavoro, questo mi sembra un primo, meritorio risultato: quello, cioè, di cercare ciò che unisce, piuttosto che ciò che divide. E come è noto, è più semplice distruggere che costruire.

Poiché, a mia volta, ho avuto l’indicazione di contenere le mie osservazioni, e ho potuto constatare che i primi commenti vertono soprattutto sulla forma di governo, vorrei – in linea, del resto, con la mia specifica formazione e con la mia esperienza professionale – dedicare alcune riflessioni all’Amministrazione della giustizia, confrontandomi con il quinto capitolo della Relazione.

Peraltro, mi sembra particolarmente significativo anche quanto affermato dalla Relazione già nel primo capitolo (p. 8), con riferimento al principio di legalità. Non vi è dubbio, infatti, che il superamento della ingenua visione del Giudice mera “bocca” della legge, e la consapevolezza dell’apporto dell’attività interpretativa nel fare emergere la norma dal testo legislativo, spinga anche il nostro sistema verso un modello che guarda al common law (e, aggiungerei, ciò anche per influsso del diritto dell’Unione Europea). Ma se così è, non vi è, del pari, dubbio che occorra riflettere sul rispetto dei diritti dei cittadini, che non devono guardare solo alla legge, ma a come è interpretata ed applicata: quindi, occorre garantire la conoscibilità della fonte, rafforzando il ruolo (almeno) della Cassazione nella previsione di un precedente tendenzialmente vincolante. L’indicazione, nella Relazione, è molto opportuna, anche se la soluzione si intravede solo in filigrana.

Per quanto attiene, più da vicino, alle riflessioni sull’Amministrazione della Giustizia, pur essendo chiari e condivisibili gli obiettivi, non mi sembra, per la verità, che il primo problema sia quello di introdurre il reato di tortura e di trattamento inumano e degradante (ancora una volta, sembrano obiettivi tipici della legislazione simbolica), anche se recenti episodi rendono plausibili, anche in Italia, tali incriminazioni. Ho il timore, inoltre, che la introduzione di forme di ricorso individuale per violazione dei diritti fondamentali, davanti alla Corte costituzionale, possa produrre un processo inflazionistico, capace di “ingolfare” la Corte.

Da penalista, condivido certamente la volontà di definire e disciplinare meglio la fase delle indagini preliminari, con attenzione ai tempi successivi alla conclusione delle indagini, e l’indicazione delle intercettazioni come strumento che va adoperato cum grano salis e con rispetto della riservatezza di tutte le persone coinvolte. Ma avrei gradito una parola più forte sul vero scandalo del nostro Paese: il ricorso ampio ed esteso a misure cautelari restrittive della libertà personale, spesso prima che sia celebrato il processo di primo grado. La vera inciviltà dell’Italia è che quasi la metà dei detenuti siano ancora in attesa di giudizio. Certo, è opportuna una opera di depenalizzazione, il mantenimento (se non l’ampliamento) del ricorso a misure alternative e l’attenzione al lavoro carcerario: tutto utile, se non indispensabile. Ma il pensiero che moltissime persone sono assolte dopo lunghissimi (ed ingiusti) periodi di custodia cautelare, che rovinano alle vittime dell’ingiusta detenzione per sempre la vita, e peraltro costano alla società somme ingenti, è – per me – prevalente: e avrei voluto che lo fosse stato anche per il Gruppo di lavoro.

Quanto al giudizio contumaciale, una riforma è certamente necessaria, per porre il nostro Paese in linea con gli altri. Non condivido, invece, il ricorso all’irrilevanza del fatto, che accresce a dismisura la sfera di discrezionalità giudiziale: molto meglio, anche a tutela delle vittime del reato, la possibilità di considerare le eventuali condotte riparatorie come cause estintive del reato in casi lievi o l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione per imputazioni molto lievi, tenendo conto dei rilievi già formulati sul punto dalla Corte costituzionale.

Per quel che concerne la durata dei processi, ed il connesso problema della prescrizione, credo che occorra affrontare il primo per scongiurare che i reati si prescrivano, e non ampliare i termini di prescrizione, perché ciò comporterebbe un ovvio allungamento della durata dei processi. La dissenting opinion sul punto, pertanto, non mi convince appieno.

Dal mio punto di vista, il problema più grave del nostro sistema giudiziario, globalmente inteso, è però costituito dallo stato comatoso nel quale versa la giustizia civile, fonte di vero danno per l’economia del Paese e dello stesso rafforzamento della criminalità organizzata (che, notoriamente, offre una più efficiente “giustizia” alternativa), con ricadute ovvie sul settore penale. Qui, oltre a tutte le condivisibili misure indicate nella Relazione, occorrerebbe prospettare la via di un piano straordinario di smaltimento dell’arretrato, che rappresenta la vera palla al piede del sistema, che tende all’equilibrio del bilancio annuale, ma soffre di… un deficit strutturale!

Per quel che concerne l’Ordinamento delle magistrature, ritengo che la soluzione indicata sia tiepida: a mio avviso, occorre che la responsabilità disciplinare dei magistrati sia accertata, già in primo grado, da una Alta Corte indipendente, per evitare casi di giustizia “domestica”; magari prevedendo una Sezione di Appello.

Allo stesso modo, occorre riflettere, certo non con intenti punitivi, sulla responsabilità civile del magistrato: e qui la Relazione contiene solo una dissenting opinion.

Interessanti anche le considerazioni sul rapporto tra azione giudiziaria e mezzi di comunicazione di massa: al riguardo, forse, poteva proporsi una accentuazione ulteriore della funzione dei capi degli uffici.

Del tutto condivisibili le indicazioni critiche sui “magistrati in politica” o nelle amministrazioni regionali o locali; come pure le riflessioni operative sui “fuori ruolo”.

Quanto ai rilievi diretti sulla composizione delle strutture amministrative del Consiglio Superiore della Magistratura e sui ritardi nella copertura di posti vacanti negli uffici giudiziari, la mia attuale funzione mi consiglia un prudente silenzio.

In conclusione, mi sembra che – vista la premessa, ed apprezzate le circostanze – il Gruppo di lavoro abbia indicato, nella materia che ho esaminato più da vicino, misure in gran parte condivisibili: se almeno una parte di esse abbandonasse la sfera dei desiderata e trovasse effettiva attuazione, lo stato della nostra Amministrazione della Giustizia, e quindi del nostro Paese, sarebbe significativamente migliore di quanto lo sia oggi.

Forse non ci vuole molto, ma sarebbe certamente tanto.