09 Giugno 2008  

Sulla privacy il governo è coerente con la Costituzione

Redazione

 

The right to be let alone. Così, nel lontano 1890, dalle colonne della prestigiosa Harvard Law Review, Samuel Warren e Louis Brandeis teorizzarono il diritto alla privacy. L’occasione per elaborare ed enunciare il right to privacy venne data da un episodio, accaduto nell’America di quegli anni. La vicenda è nota, ma vale la pena rievocarla brevemente anche perché di grande attualità.

Samuel Warren, un giovane avvocato, aveva sposato la figlia del ricco bostoniano Byard, e aveva iniziato a condurre una fastosa e festosa vita di società, con ricevimenti del genere che una generazione dopo G. Scott Fitzgerald avrebbe reso celebre con i suoi romanzi. La stampa locale diede largo risalto, nelle cronache mondane, a quei festini, che parevano ricchi anche di ostentazione finanziaria, facendo anche qualche considerazione poco benevola su quello spreco di denaro. Warren si associò all’avvocato Brandeis (che sarebbe diventato, anni dopo, giudice della Corte Suprema), insieme scrissero quell’ articolo e avviarono un’azione legale per protestare contro l’invadenza della stampa e per invocare dalle corti di giustizia il rispetto della sua vita privata, intesa peraltro non in senso strettamente individuale, ma in quello familiare. Anni dopo, la Corte Suprema riconobbe il right to privacy, che divenne una pietra miliare del diritto costituzionale americano, e non solo.

Leggete come chiudevano l’articolo Warren e Brandeis: «Il diritto ha sempre riconosciuto che la casa di un uomo è il suo castello, spesso inaccessibile anche a coloro che sono incaricati di eseguire i suoi stessi ordini. Vorranno forse i tribunali sbarrare l’ingresso principale alle autorità costituite per poi spalancare le porte di servizio alla curiosità oziosa e pruriginosa?».

Un periodare che andrebbe ripreso pari-pari anche nella relazione introduttiva al disegno di legge, che il governo si accinge a presentare in materia di limitazione delle intercettazioni al fine di tutelare il diritto alla riservatezza. Un provvedimento normativo, vale la pena ricordarlo, che era stato già fatto proprio dall’esecutivo Berlusconi nel liminare della XIV legislatura, a ridosso della conclusione del mandato di governo.

Quindi, punto primo: coerenza nella ripresentazione di un progetto legislativo, che era ed è nel programma di indirizzo politico della maggioranza di governo.

Punto secondo: non mi pare che si possa dire che un simile provvedimento sia orientato a bloccare le indagini della magistratura. Vuoi perché il provvedimento consente di utilizzare il metodo delle intercettazioni nei casi di reati gravi, quali terrorismo e criminalità organizzata, vuoi perché la magistratura non ha, come ovvio, soltanto il sistema delle intercettazioni per svolgere le indagini sui crimini. Ci sono i metodi tradizionali, che mantengono la loro capacità investigativa.

Punto terzo: il provvedimento nel frenare l’uso tracimante, dispendioso e abusato delle intercettazioni, si preoccupa di tutelare un diritto fondamentale e inviolabile, quale quello della riservatezza, da tempo sottoposto a mortificante violazione. Perché il problema, lo si è visto in molti recenti episodi, è quello della diffusione sulla stampa del contenuto delle intercettazioni. Che nella stragrande maggioranza dei casi nulla rilevavano sul piano del reato oggetto dell’indagine; semmai davano conto di fatti assolutamente privati, personali e quindi inviolabili.

Punto quarto: il cerchio si chiude; con il provvedimento normativo, da un lato si limita e si circoscrive l’uso e, soprattutto, l’abuso delle intercettazioni, che sono diventate una sorta di free market a disposizione di tutti; dall’altro lato, si esalta e si rafforza la tutela del diritto alla riservatezza, quale diritto fondamentale del cittadino, che non può essere messo alla mercé di tutti, specialmente su faccende e vicende assolutamente private, che vengono rese pubbliche solo per solleticare la morbosità dei lettori.

Non c’è conflitto fra intercettazioni e riservatezza. Perché nel bilanciamento dei diritti, prevale sempre e comunque il diritto fondamentale del cittadino, anche di fronte al diritto allo svolgimento dell’indagine penale. Questo non è garantismo, ma piuttosto costituzionalismo.

Insomma: la privacy o è un diritto fondamentale oppure no. Ma siccome lo è, e vogliamo tutti che lo sia sempre più, allora occorre impedire che venga violato. La legge frena gli arbitrii, limita gli abusi, circoscrive l’accorto uso (e il Garante per la privacy dovrebbe essere più tempestivo e rigoroso). Vivere in uno Stato costituzionale vuol dire godere pienamente dei diritti di libertà, senza se e senza ma. Certo, vuol dire vivere in un contesto in cui siano repressi i crimini e puniti i reati, ci mancherebbe. Ma l’uno, il diritto di libertà alla propria riservatezza, e l’altro, il diritto alla giustizia penale, convivono perfettamente nello Stato di diritto. Come è dimostrato nei Paesi di democrazia liberale; come ci hanno insegnato i giuristi americani già due secoli fa.

(L’Occidentale)