Troppa condanna per la modernità
Ma possibile che, per Benedetto XVI, il «cristianesimo moderno» sia degno solo di una autocritica, del resto connessa con quella che viene richiesta a tutta la modernità (paragrafo 22)? Mentre l’enciclica appena pubblicata abbonda, com’è giusto, di citazioni scritturali e di richiami ai Padri della Chiesa, essa evita completamente ogni riferimento alla teologia contemporanea, che pure non è affatto silenziosa sulla tematica della speranza. A cominciare da quella Teologia della liberazione che l’attuale pontefice ha contribuito potentemente a tacitare già quando collaborava con Giovanni Paolo II nel ruolo di capo della Congregazione per la dottrina delle fede. Va bene che oggi non ci sono più Padri della Chiesa, il loro tempo è finito. Ma il silenzio dei teologi di oggi, tra le tante citazioni di cui è costellato il testo papale, non può non collegarsi all’amputazione di una parte della tradizione ecclesiale, che il Papa vede come limitata a testi più antichi, quasi che l’assistenza dello Spirito Santo, mandato da Gesù per «insegnarci ciò che lui ci aveva detto», non si sia estesa molto oltre i tempi apostolici.
Il cristianesimo moderno deve fare autocritica perché, evidentemente, si è lasciato infettare dal virus della modernità. Che per il Papa si chiama culto eccessivo della ragione e della libertà. Tutto comincia con il povero Francesco Bacone, che enuncia per la prima volta il programma di una umanità che si riscatta dalle dipendenze naturali con l’uso tecnico della scienza. E che in tal modo diventa più libera. Ma ciò che secondo la tradizione più antica si trattava di realizzare era il ricupero della condizione originaria, prima del peccato originale, insomma la «redenzione». Che si può attendere solo dalla fede in Gesù Cristo. Naturalmente Bacone non negava affatto la fede in Gesù Cristo, non aveva intenzione di liquidare la tradizione cristiana. Neanche molti pensatori dell’Illuminismo erano decisamente anticristiani, come non lo era, prima di loro, Galileo Galilei, che rifiutava soltanto di assumere l’Antico Testamento come un manuale di astronomia.
I tanti scienziati credenti che operano oggi nelle università, anche cattoliche, di tutto il mondo non ritengono affatto di servire al progetto distruttore della modernità anticristiana. Certo il pontefice non pensa di scomunicare tutti questi bravi operai della conoscenza. Ma è indubbio che il tono complessivo della sua enciclica, con l’insistenza sulla irriducibilità della speranza cristiana a qualunque speranza mondana, dà l’impressione che riconoscere il primato della fede implichi un’accettazione della finitezza umana che potrebbe rasentare la rassegnazione o almeno una forma di quietismo. Del resto, ciò che il Papa rimprovera a tante forme di ideali emancipativi moderni è la loro pretesa, almeno a lui appare tale, di realizzare il regno di Dio in terra – con la conseguenza ovvia che, data l’impossibilità di un simile programma, si producano solo violenze ancora più gravi di quelle a cui si tratterebbe di rimediare.
A questa condanna non sfugge Bacone, non sfugge Kant, non sfugge soprattutto Marx. Che pure avrebbe qualche titolo per salvarsi: la sua idea di riscatto umano è molto più vicina al cristianesimo di quanto non sia la fede illuministica nel progresso. Però anche la storicità della redenzione marxiana non va bene al Papa. Che dalla storia non si aspetta niente o quasi, tanto che la soluzione a cui pensa, senza enunciarla, è una sorta di ritorno a prima di Bacone. Di qui anche la preferenza per i testi più antichi della tradizione cristiana, e il silenzio sulla teologia contemporanea. Ma il vero senso della speranza cristiana può legarsi a questa radicale diffidenza verso ogni possibilità di miglioramento della condizione umana, sia in termini di agevolazione materiale dell’esistenza, sia in termini di maggiore autonomia di singoli e comunità rispetto alla «necessità» di leggi naturali che forse non sono sempre espressione della volontà divina? È vero che per salvarci dobbiamo ridiventare come bambini. Ma fino a che punto la fedeltà ai testi scritturali esigerebbe una lettura così letterale?
(da “La Stampa”)