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L’Appello pubblicato dal “Riformista” contiene alcuni spunti di riflessione, ma non sembra l’approccio migliore ad un auspicabile, ampio dialogo con il mondo dell’università. Qualsiasi soggetto che voglia proporre un contributo al dibattito, dovrebbe infatti da un lato tenere conto delle istanze di altre realtà che operano nel mondo della ricerca, dall’altro proporre un programma che giustifichi la critica agli atteggiamenti preesistenti. Al contrario, vi sono molti punti dell’appello che suscitano perplessità. Anzitutto l’affermazione – infondata – che dal mondo universitario giungano solo dinieghi al cambiamento privi di proposte: tutte le organizzazioni della docenza e della ricerca hanno quasi sempre formulato controproposte, che fossero più o meno condivisibili è altra questione.

L’appello appare poi piuttosto vago nel merito: se si accusa qualcuno di dire no senza proporre nulla si dovrebbe dare il buon esempio, almeno tracciando a larghe linee i contorni della propria visione inquadrata nella contingenza della situazione presente. In altre parole, il cambiamento non va auspicato come valore in sé, ma nella misura in cui può contribuire ad affrontare i problemi esistenti. Dagli autori dell’appello, in larga parte professori universitari, ci si sarebbe quindi attesa una maggiore sensibilità verso i nodi che hanno determinato le posizioni di opposizione a talune delle più recenti proposte di riforma : in particolare le condizioni di coloro che operano quotidianamente nell’università in una situazione di blocco delle assunzioni, mancanza di concorsi, assenza di contratti dignitosi e di validi strumenti di valutazione meritocratica. L’assenza di ricercatori non strutturati fra i sostenitori dell’appello – che, unitamente alla nota sulle sottoscrizioni, sottende un diritto di parola limitato ai soli strutturati (paradossale, da parte di chi evoca “maggioranze silenziose”) – dovrebbe quindi indurre qualche perplessità. L’appello, in questo senso, rischia anche di apparire sgradevole nei confronti dei tanti che sacrificano una cospicua parte del proprio tempo libero a scrivere emendamenti, studiare leggi e dati, preparare interventi e incontri politici, senza avere uno stipendio da ordinario (in molti casi, diciamo pure, senza avere uno stipendio).

Forse più rilevante, tuttavia, il fatto che in questo episodio si può intravedere una delle tante manifestazioni di un modo di pensare diffuso che, per reagire a un effettiva esasperazione ideologica e spesso sterile del dibattito, decide di rimuovere il dibattito stesso ed ignorare i problemi che quel dibattito sottende. Questa semplificazione è evidentemente una mortificazione della politica nel suo valore di sforzo dialettico per il miglioramento delle condizioni collettive. Nel testo dell’appello, come si è detto, vi sono poi indubbi elementi di verità, come il fatto che una riforma sia necessaria e che i problemi non si risolvono con semplici aumenti di finanziamento (in ogni caso necessari, nelle attuali condizioni del nostro sistema-ricerca), o che la necessità di una riforma debba tendere ad una dimensione che in qualche modo trascenda le posizioni ideologiche e contingenti. Tuttavia questi argomenti sono attualmente piuttosto condivisi e, d’altronde, tutte le prese di posizione prive di proposte dettagliate, da qualunque parte provengano, contribuiscono a far scivolare il dibattito sul terreno delle posizioni pregiudiziali e dell’ideologismo.