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Un vero intellettuale e un gran signore. Sono queste le prime parole che vengono in mente, le stesse che ho sentito dai molti amici e colleghi che hanno chiamato per avere notizie di Fabio Grassi Orsini, scomparso ieri, 4 settembre 2018, a Roma per una complicazione dopo una degenza ospedaliera. Ci sarebbero molti modi di ricordare Fabio, che ha avuto una vicenda intellettuale e professionale caratterizzata da una molteplicità di interessi e che, si può dire, è uno spaccato di storia politica e culturale italiana. Erede di una famiglia di tradizioni risorgimentali e liberali, è stato un diplomatico di carriera dal 1960 al 1982: era entrato per concorso due anni dopo la laurea, prima destinazione Abidjan, in Costa d’Avorio, nell’annusmirabilis della decolonizzazione. Al Ministero fece partedi quel gruppo di giovani funzionari impegnato per un rinnovamento funzionale dell’amministrazione degli Affari Esteri. Come ultimo incarico aveva diretto l’Archivio storico-diplomatico, dove si era distinto per un grande lavoro di recupero delle fonti, di predisposizione di strumenti di corredo alla ricerca e di approfondimento storico sugli uomini e le istituzioni della diplomazia italiana, alla testa di un gruppo di collaboratori e giovaniarchiviste, oggi brillanti funzionarie che lo ricordano con affetto immutato.

Fabio è stato un instancabile lavoratore, perché a partire dalla metà degli anni Settanta oltre all’impegno in diplomazia, è stato anche professore incaricato di Storia contemporanea al Magistero di Lecce, quando aveva già pubblicato una bella monografia sull’età giolittiana nel Salento (disapprovò sempre la decisione di Laterza di modificare il titolo in Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, con il quale poi uscì il libro). Studio e impegno burocratico: mi raccontava che scendeva dal treno dopo aver viaggiato la notte, indossava l’immancabile cravatta e correva al Ministero. Sono di quegli anni anche i suoi studi “africani”: il suo lavoro sulla Somalia è stato a lungo uno dei pochi lavori italiani citati sulla Cambridge History of Africa, ma glielo dissi io, anni dopo, a lui era sfuggito. A Lecce si era impegnato in un grande lavoro di valorizzazione della storia del liberal-socialismo e del socialismo riformista e chi lo ha conosciuto in quegli anni ricorda il suo impegno per l’implementazione della biblioteca della facoltà, che grazie a quell’intervento si avvale ora di un fondo librario tematico tra i più importanti del meridione d’Italia. L’ultimo impegno pugliese fu l’organizzazione di un grande convegno internazionale sulla diplomazia nazionale, al quale parteciparonostorici, giuristi, diplomatici, archivisti, di cui ho sentito parlare a lungo, e non solo per i risultati scientifici di rilievo e il livello di partecipazione, ma anche per i dettagli di una organizzazione perfetta, di cui Fabio è stato davvero maestro,come sempre non priva di momenti di elegante convivialità.

Dal 1989-90 è stato professore ordinario a Siena, alla facoltà di Scienze politiche, di cui fu anche preside, ed era molto orgoglioso di quella sede, per la bellezza della città e per la nobiltà della sua storia e che considerava una piccola capitale, come la sua Lecce. Sempre in anticipo sui tempi, dalla fine degli anni Ottanta cominciò a studiare il concetto di partito nel pensiero dei liberali italiani. Io ero tra i cinque studenti che frequentarono il suo primo corso senese, quando ci spalancò la porta sui moderati italiani della prima restaurazione e poi Spaventa, Bonghi, Brunialti, Zanichelli, Palma, Turiello, Mosca, Pareto, Michels, per citarne alcuni, e tuttoun mondo a noi pressoché sconosciuto. Mai un manuale, ritenuti tutti insoddisfacenti, mai un corso uguale a quello dell’anno precedente, soltanto fonti primarie, memorie, carteggi, diari, atti parlamentari, saggi monografici, leggi e decreti, statuti, regolamenti, manifesti, una fatica enorme, soprattutto per lui: «la cosa migliore del Sessantotto – diceva – è stata l’abolizione dei libri di testo. È così che si costruiscono le idee».Sono questi gli anni dell’organizzazione di diversi convegni sui partiti politici in Italia dall’unità alla Repubblica, una stagione di studi che lo vedeva vicino a Gaetano Quagliariello, uno dei motori di quelle iniziative, che, ancora una volta, andavano a coinvolgere un gran numero di storici della politica e furono per molti giovani di allora una opportunitàdi grande crescita intellettuale. Nei primi anni Duemila, si era impegnato per una riapertura degli studi sui liberali italiani nel passaggio dal fascismo alla Repubblica, tema semi-abbandonato dalla comunità scientifica. Si trattava per lui di una operazione di «filologia morale», diceva. Cominciò a chiamare a raccolta amici vecchi e nuovi, giovani studiosi, vari eredi di famiglie liberali, depositari di archivi, gli ultimi testimoni di quel passaggio complicato della storia d’Italia, che certamente aveva coinvolto anche la sua famiglia, ma che trattò con il necessario distacco, da storico. E poi un’altra idea, nata a Siena e che ebbe seguito a Roma: mettere in piedi un Istituto Storico per il pensiero liberale, che facesse da punto di riferimento di tali attività di studio.Fu a margine di questi lavori che nacque l’idea di un Dizionario del liberalismo italiano, altra impresa ciclopica, in cui si distinse per qualità direttive e capacità di moderazione nei confronti della tradizionale riottosità liberale, riuscendo a tenere insieme studiosi di orientamento diverso. Ho sempre pensato che quel Dizionario sia un modello di operazione culturale ontologicamente liberale, cioè non solo per i contenuti, maanche per il modo in cui è nato ed è stato portato a termine. Sono anche gli anni di altri lavori di pregio condotti presso l’Archivio storico del Senato: la curatela del diario di Guglielmo Imperiali, dei Discorsi parlamentari di Vittorio Emanuele Orlando,il repertorio dei senatori del periodo subalpino e liberale. E che danno l’idea della sua reale cifra di studioso, attento alle élites,alle classi dirigenti, agli uomini che hanno condizionato i processi decisionali,paretianamenteconvinto che la storia non fosse altro che un cimitero delle aristocrazie. La sua ultima operazione culturale è stata la consegna del fondo librario suo e della sua famiglia alla biblioteca del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Lecce, assieme ad una copia originale della Costituzione del 1948 firmata dal nonno, il ministro guardasigilli Giuseppe Grassi, che lui stesso avrebbe voluto personalmente consegnare e che non è riuscito a fare. Con il solito understatement, che era uno dei tratti distintivi della sua personalità, Fabio diceva sempre di non aver scritto molto, e forse un po’ è vero,ma ci lascia una quantità di strumenti di enorme valore grazie ai quali è possibile scrivere la storia. Quello che oggi più conta, è che ci lascia il ricordo di un intellettuale “integrale”, per cui tutto, davvero, era cultura, di un insospettabile vulcano di idee e di progetti,di un ottimo organizzatore di cultura, che aggregava e includeva, di un grande conversatore, di un docente interamente assorbito dalla didattica e dagli studenti, di una persona di una cortesia di altri tempi e di una umanità di cui oggi si avverte un gran bisogno.

Gerardo Nicolosi