04 Maggio 2011  

Un ritorno al passato per la futura costituzione economica

Redazione

1. È vero che tra le costituzioni vigenti non esistono casi di identità salvo le rarissime ipotesi di adozione di costituzioni altrui. Pure è esatta l’osservazione che alcuni modelli parziali sono stati ripresi o ricopiati e ciò è avvenuto anche per quella parte dei testi costituzionali che compongono la costituzione economica. Un siffatto fenomeno di ricopiatura non è potuto avvenire per le disposizioni economiche della Carta italiana dacché esse costituiscono un unicum irripetuto e fuori dagli schemi, il quale, già per questa sola ragione, appare meritevole di un studio approfondito.

Tale peculiarità è immediatamente evidenziata dalla circostanza che la costituzione economica italiana è il prodotto del combinato di molteplici disposizioni distribuite in ognuna delle tre parti che compongono la Carta repubblicana del 1947 ed in maniera rilevante nella parte portante i “Principi fondamentali”. Un assetto sistematico che discende dagli stretti legami che si sono intrecciati nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, tra le scelte sugli elementi costitutivi della forma di democrazia con i quali configurare la nascente Repubblica e quelle sull’impianto delle disposizioni relative all’assetto economico del futuro Stato. Si tratta di una vicenda non riscontrabile nelle esperienze delle democrazie europee occidentali, dato che in nessuna delle costituzioni che esse hanno adottato nel corso del novecento è dato di riscontrare una connessionealtrettanto stretta. Ciò, anche perché, di norma, i lavori per la stesura dei testi costituzionali hanno raramente affrontato il nodo delle basi della democrazia; si è, infatti, trattato nella più parte dei casi di testi dal contenuto meramente evolutivo nell’ambito di processi di irrobustimento di sistemi democratici già esistenti ed operanti. Ma v’è di più: l’esperienza italiana è diversa, per questo profilo, anche da quella degli altri Stati europei che, come l’Italia, sono usciti da un periodo di soppressione delle libertà e delle istituzioni democratiche (R.F.T., Spagna e Portogallo).

Il fatto è che i lavori dell’Assemblea Costituente sono stati caratterizzati dalla forte incidenza, già manifestatasi nell’accordo pre-costituzionale del “Patto di Salerno” del 1944, di due formazioni dichiaratamente marxiste, alleate tra loro nell’obiettivo di instaurare una forma di stato sul modello sovietico, ossia di uno stato monoclasse nel quale il potere politico sarebbe stato concentrato nel solo ceto dei lavoratori (dipendenti), prescindendo dal fatto che negli accordi di Yalta l’Italia era stata inserita nella sfera d’incidenza delle democrazie occidentali. E tale progetto politico, sostenuto dal Partito socialista italiano e dal Partito comunista italiano, i cui rappresentati erano una fondamentale componente dell’Assemblea, ha interamente condizionato i lavori ed il testo che venne poi approvato, tanto che le sue ripercussioni sono ancora oggi di piena attualità. Come è noto, sin dalla fase iniziale, ossia nella Commissione dei 75, incaricata del compito di redigere un primo schema della nuova Carta, tale disegno politico è stato formalizzato da Togliatti con la proposta di dare al primo comma dell’art. 1 il seguente tenore: “L’Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori”, sul modello – appunto – degli Stati collettivisti. Una proposta che venne nuovamente riformulata nell’Assemblea, sebbene fosse stata recisamente respinta dalla Commissione in ragione del rifiuto di istituire uno Stato che non fosse pluriclasse, e che è restata permanentemente «sullosfondo» anche quando i lavori sono proseguiti riguardo alle successive disposizioni inserite nella Parte introduttiva sui “Principi fondamentali”. In effetti, così è avvenuto nell’elaborazione dei tre articoli che costituiscono l’unitario basamento sul quale si fonda il cuore della Costituzione e, aben vedere, la stessa costituzione economica. Le due opposte concezioni di Stato si sono potute (quantomeno formalmente) comporre tra loro nell’ambito delle disposizioni sulla valorizzazione dell’individuo nella società e sulla centralità del lavoro dettate negli artt. 2, 3 e 4 Cost; precetti, tutti caratterizzati dalla loro possibile doppia interpretazione, sia nel significato collegabile ai valori cristiani, di cui era portatrice la Democrazia Cristiana, che disponeva della maggioranza relativa, sia nel significato marxista, portato a confondere il cittadino partecipante con il lavoratore (dipendente). Particolarmente significativo per il punto di vista social-comunista è stato, in proposito, il non inserimento tra tali principi cardinali di una disposizione precipuamente diretta a sancire il principio fondamentale di libertà, richiamata solo implicitamente nell’art. 2, come parte dei “diritti inviolabili dell’uomo”, nell’ambito di una formulazione ben accetta dalla componente cattolica e sulla stesura della quale non ha potuto incidere la sparuta pattuglia di costituenti liberali. Ed è noto che questa mancata indicazione diretta ha avuto di sicuro influenza sulla successiva interpretazione (se non sulla stesura) delle disposizioni sulle libertà economiche. E altrettanto significativa è la giustapposizione, rinvenibile nell’art. 3, II comma, tra “il pieno sviluppo della persona umana” e “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” causata dall’inserimento in extremis del secondo inciso, su richiesta della componente socialcomunista, quasi a risarcimento del rigetto della formulazione dell’art.1 da essa proposta. Un accostamento che è stato accettato dai non marxisti i quali potevano anche affermare che il II comma dell’art. 3 Cost. non facesse riferimento ai soli lavoratori subordinati, dal momento che era assodato che il successivo art. 4 della Carta avrebbe sancito la pari ordinazione di tutti i lavoratori – dipendenti o meno – riconoscendo la qualità di lavoratore ad ogni cittadino che svolga, “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Sembra, d’altronde, incontestabile la tesi secondo la quale il confronto tra le due visioni politiche predominanti nella Costituente non si sia risolto in modo definitivo e completo e che ognuna delle parti abbia perseguito l’intento di inserire nel testo costituzionale alcuni puntelli a supporto della propria concezione (economica) dello Stato. Il risultato che ne è derivato consiste nel fatto che, tra i principi fondamentali, sia stato dato prioritario rilievo a quello personalista (più che a quello liberista), a quello lavorista e a quello sociale nonché nella conseguenza che tali principi avrebbero pertanto condizionato l’assetto della costituzione economica che sarebbe poi stata articolata nel Titolo III della Parte I della quale essi – a ben vedere – già costituiscono la già fortemente strutturata impalcatura.

2. Non può pertanto sorprendere che, nell’ambito del poco ordinato complesso delle disposizioni di oggetto economico, che compone il menzionato Titolo III, le disposizioni concernenti il lavoro ed i lavoratori abbiano letteralmente sommerso – in applicazione dei tre anzidetti principi – quelle poche che hanno riguardo alle libertà e ai diritti economici e che sono sostanzialmente oggetto dei soli articoli 42 e 41-43 Cost, salvo minime eccezioni, quali, ad esempio, quelle dello sviluppo dell’artigianato e della piccola proprietà contadina e così via. In effetti, tutte le disposizioni iniziali del Titolo sui “Rapporti economici” (artt. 35-40 Cost.) hanno come oggetto la disciplina della tutela dei lavoratori e dei loro mezzi organizzativi ed operativi: sciopero e sindacati. Ma anche la restante parte del Titolo (gli artt. da 43 a 47 Cost.) o è rivolta direttamente ai lavoratori (contadini, artigiani, ecc…) o è comunque ad essi riallacciabile anche se non in maniera esclusiva.

In altre parole, una chiave di lettura quasi obbligatoria della costituzione economica repubblicana consiste nella priorità delle esigenze di tutela ed elevazione dei lavoratori, prodotta dai molteplici ordini di doverosità formalizzate dall’Assemblea Costituente in conseguenza dell’accennato confronto tra le due maggiori forze politiche nella formulazione dei Principi fondamentali. È questo dibattito (involgente, in primo luogo, il rapporto di priorità tra uguaglianza e libertà) che ha portato il convincimento della preminenza dell’approccio lavoristico su quello del fine della produzione della ricchezza e della conseguente organizzazione produttiva (la quale, invero, dovrebbe essere prioritaria), facendo apparire – dal punto di vista formale, anche se non necessariamente sostanziale – il lavoro (specie subordinato) come l’elemento essenziale e il fine ultimo di tale organizzazione. Da un canto, le finalità di tutela derivanti dal principio personalista: dagli obiettivi dello stato sociale, che si realizzano in generale attraverso la tutela del lavoro (“in tutte le sue forme”) e, specificamente, mediante la garanzia del diritto alla giusta retribuzione, della parità della donna lavoratrice e del diritto alla previdenza; d’altro canto, i “fini della elevazione economica e sociale del lavoro” (per utilizzare la formula dell’art. 46 Cost.), perseguiti da tutte le componenti dell’Assemblea, seppure più prossimi alle posizioni della sinistra, e attuati attraverso gli articoli finali del Titolo stesso, con l’incremento della piccola proprietà contadina, la cooperazione, l’artigianato, la collaborazione – da parte dei lavoratori – alla gestione delle aziende e, infine, con la tutela e l’incremento del risparmio, specie popolare.

Resta tuttavia il fatto che, per alcuni aspetti, l’esito del dibattito sull’art. 1 Cost., conclusosi con il rigetto della nota proposta di Togliatti, ha avuto una qualche incidenza sul tessuto delle disposizioni sul lavoro del Titolo III. Fanno parte di questi aspetti la configurazione dello sciopero e del sindacato come strumenti mirati alla sola tutela dei diritti dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro. Come è noto, in tale contesto, la massima espansione del ruolo dei sindacati, peraltro previamente obbligati all’iscrizione in pubblici registri (notoriamente considerata una rimanenza del corporativismo), è consistita nell’attribuire ai contratti stipulati dalle confederazioni (i sindacati più rappresentativi) valore normativo per l’intera categoria di lavoratori. Di talché nel testo costituzionale non è dato di rinvenire alcuna traccia di attribuzione ai lavoratori subordinati, come classe a se stante, di un qualsivoglia ruolo nelle scelte della politica; con la conseguenza che non è stata data copertura costituzionale allo sciopero politico e alla partecipazione dei sindacati alla determinazione dell’indirizzo politico economico del governo che sarebbero stati presumibilmente intesi come una parziale applicazione della proposta – categoricamente respinta dai Costituenti stessi – di instaurare in Italia uno Stato dei lavoratori.

3. Altrettanto evidente è il fatto che le scelte transattive raggiunte in occasione della determinazione dei “Principi fondamentali”, ancorché mediante l’approvazione di testi normativi dal contenuto anfibologico, hanno inciso con altrettanta forza sulla restante parte del Titolo sui “Rapporti economici”. Parte che è costituita dai due snodi strutturali della costituzione economica: la proprietà dei beni ed, in particolare, la proprietà degli strumenti economici per la produzione (concetto, questo, individuabile nell’imprecisa locuzione “beni economici” di cui all’art. 42, I comma, Cost.) e l’iniziativa economica. In effetti, è dato di comune conoscenza che in base alle disposizioni (tra le quali devono essere comprese anche le discipline speciali di cui agli artt. 44 e segg. Cost.), che hanno riguardo ai due nodali istituti, sopravvivono unicamente gli elementi essenziali sui quali si fondava la costituzione economica dello Stato liberale: la tutela del diritto di proprietà privata e la priorità assoluta dell’iniziativa economica privata. Ciò in quanto questi due istituti sono stati rivisitati in maniera fortemente riduttiva alla luce delle nuove e predominanti finalità dello Stato sociale e, in parte, del principio lavorista. Da un canto, il diritto di proprietà privata – peraltro posto in sottordine nell’ambito della sistematica seguita nel I comma dell’art. 42 Cost., che gli antepone la proprietà dello Stato e degli enti (pubblici) – è stato riconosciuto dalla Costituzione e garantito dalle legge ma in quanto funzionale al raggiungimento dei fini di solidarietà sociale e di tutela del lavoro sanciti negli artt. 2, 3, II comma, e 4 Cost. In altre parole, il diritto di proprietà privata ha perso, come è risaputo, il carattere di assolutezza, che esso aveva sotto la vigenza dello Statuto Albertino, e il suo esercizio è ormai condizionato all’adempimento della funzione di interesse generale dello Stato sociale, sia essa specificata come “utilità sociale” (art. 42 Cost.), sia essa indicata come “razionale sfruttamento del suolo” o come perseguimento di “equi rapporti sociali” (art. 44 Cost.). D’altro canto sta l’iniziativa economica privata la cui funzionalizzazione è evidenziata dal momento stesso in cui essa viene qualificata nell’art. 41 Cost. come libertà e perciò soggetta ai limiti di esercizio discendenti dalle molteplici necessità dello Stato sociale e del principio lavorista. Invero, sebbene la citata disposizione costituzionale sembri attribuirle un ruolo centrale nel disegno costituzionale dei meccanismi presi in considerazione dalla Carta per lo sviluppo economico (l’art. 41, I comma, non si presenta d’acchito come parallelo all’art. 42, il quale pospone la proprietà privata alla proprietà pubblica), ciò non toglie che, immediatamente oltre, nel III comma, essa viene affiancata dall’iniziativa economica pubblica. Ed inoltre si aggiunge il fatto che l’attività imprenditoriale dei privati, oltre ai limiti intrinseci che escludono che essa possa contrastare con l’utilità sociale e recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, si vede ridotti gli spazi entro i quali essa può essere esercitata in ragione dell’art. 43 che – come è noto – costituisce la disposizione centrale della costituzione economica, prevedendo un sistema di economia mista, con l’aggiunta di qualche indeterminato elemento di dirigismo attraverso la programmazione (“indirizzi e programmi dettati dalle leggi”).

L’aspetto più rilevante di questa configurazione mediana, che affianca agli elementi di base dell’economia liberale (si ricordi, mai cancellati dalla Costituzione) i correttivi necessari per la realizzazione dello stato sociale o destinati a tutelare in maniera forte i lavoratori (dipendenti o “salariati”, come dice l’art. 37, II comma, Cost.), discende dal fatto che essa sembra confermare come la contrapposizione tra le diverse visioni istituzionali dei partiti non sia stata interamente superata e codificata dal testo Costituzionale, anche a causa dell’impossibilità di raggiungere in Assemblea Costituente un accordo pieno. Ed è altresì rilevante che ciò abbia comportato la delega ai futuri Parlamenti delle scelte necessarie per dare concreta forma al nuovo sistema economico. È stato, infatti, assegnato al legislatore di dare sostanza agli indefiniti concetti di “utilità sociale” e “fini sociali”(art. 41 Cost.), “funzione sociale” e “interesse generale” (art. 42 Cost.), “utilità generale”, “servizi pubblici essenziali”, “preminente interesse generale” (art. 42 Cost.), “equi rapporti sociali” (art. 44 Cost.), “elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione” (art. 46 Cost.); impegno che il legislatore ha adempiuto con il determinante ausilio della Corte costituzionale). Altrettanto evidente è il fatto che sia stato rimesso al legislatore di attuazione di determinare la graduazione tra pubblico e privato del costruendo sistema di economia “mista”, deferendogli il potere/dovere di: a) stabilire, di volta in volta, le attività produttive aventi “preminente interesse generale” da riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate, seppure limitatamente ad imprese operanti nei servizi pubblici essenziali, nelle fonti di energia o in situazioni di monopolio; b) di dettare “programmi” e controlli mirati ad indirizzare a fini sociali l’iniziativa economica pubblica e privata.

In altre parole, il quadro normativo costituzionale si presenta senza dubbio aperto nonostante le molteplici opzioni già compiute nella Carta. Sarebbe dunque spettato al futuro legislatore il compito di realizzare l’effettivo assetto strutturale del sistema economico del Paese, essendo anche certo che il non chiuso confronto tra le diverse anime dell’Assemblea costituente si sarebbe prolungato in quella sede, dando al processo di attuazione una connotazione purtroppo conflittuale.

4. L’esame che è oggi possibile svolgere sullo scorso sessantennio consente di affermare che il disegno di stato sociale indicato dalla Costituzione è stato sostanzialmente attuato e, anzi, in ampia parte superato, specie per quegli aspetti sui quali si era trovata nella Costituente un’intesa piena e non solo formale. Questa considerazione vale dunque in particolare modo con riferimento al principio lavorista e alle disposizioni del Titolo III della Parte I che mirano alla tutela del lavoro, all’elevazione della condizione dei lavoratori, alla previdenza, all’esercizio del diritto di sciopero e all’organizzazione sindacale. In effetti, risultano del tutto minimi gli ambiti residuali di carente o mancante attuazione fino ad oggi residuati che hanno peraltro riguardo ad aspetti particolari (quale quello della piena parità di trattamento della donna lavoratrice) o a situazioni del tutto delimitate. Mentre, indubbiamente, sono state in ampia parte realizzate le settoriali prospettive sociali prese in considerazione dalle disposizioni finali del medesimo Titolo III, relative alla piccola proprietà agricola e all’agricoltura montana, alla cooperazione, all’artigianato, al risparmio popolare e alla proprietà dell’abitazione. Ma non basta; lo stato sociale, preconizzato dalla Carta del 1947 ed in particolare nell’art. 3, II comma, (che non riguarda esclusivamente il mondo del lavoro) è stato edificato – anche se non perfettamente completato – in tempi non troppo lunghi sebbene non senza conflitti, dando attuazione anche al precetto costituzionale del pieno sviluppo della persona umana sia nel campo economico che in quello sociale. Ciò, attraverso un processo di progressiva realizzazione che ha avuto il suo apice nel periodo intercorrente tra gli anni sessanta dello scorso secolo, in cui i socialisti hanno acceduto al governo (basti ricordare, riguardo alle innovazioni introdotte in quel torno di tempo e solo per citare qualche esempio, la liberalizzazione degli accessi all’università e la nuova licenza di maturità del 1969 e lo Statuto dei lavoratori del 1970), e gli anni settanta in cui i comunisti hanno iniziato a fare parte delle forze di governo (“compromesso storico”). Di questa ultima fase basti citare le leggi sui rapporti sociali: divorzio (1974), nuovo diritto di famiglia (1975), aborto (1977), equo canone (1977) nonché sull’assistenza pubblica, con particolare riferimento all’istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) e quant’altro.

È questo complesso sistema di leggi innovative che consente di affermare che, in via di massima, il welfare state (e il sistema di tutela dei lavoratori che ne costituisce parte preminente) posto in essere nei primi quarant’anni della Repubblica costituisce -nonostante i suoi molteplici elementi di squilibrio e le sue carenze, peraltro non tutti di dettaglio- una delle forme di stato sociale tra le più articolate del mondo occidentale. Il che potrebbe sorprendere, ove consideri che l’economia italiana è meno forte e opulente di quella di altri Stati che non vantano sistemi di protezione sociale altrettanto evoluti. Ed è pure ovvio che, alla base di questo risultato, vi siano ragioni del tutto peculiari che sono in buona parte derivate dal modo in cui la costituzione economica è venuta in essere sulla base delle linee – non incerte su questo aspetto – della Costituzione. Può essere altresì rilevato che è in quest’ultima o meglio, è nel modo in cui quest’ultima è stata interpretata ed attuata, che si può individuare l’inestricabile intreccio delle ragioni per le quali la costruzione dello stato sociale sia stata perseguita fino in fondo rimuovendo la gravità della contropartita di tale scelta: la crescita inarrestabile del deficit pubblico e la perdita di competitività del sistema economico nel suo complesso, ossia, le cause ormai generalmente riconosciute della crisi dello stato sociale esplosa verso la fine del XX secolo. Il che ha fatto sì che il modello italiano realizzato nel primo quarantennio della Repubblica costituisca un unicum nel panorama delle democrazie occidentali, così come era un unicum la costituzione economica introdotta nel 1947.

5. Eppure, si può a buon conto affermare che questo risultato, positivo per alcuni versi e quasi fallimentare dal punto di vista finanziario, era stato escluso da un articolato insieme di disposizioni costituzionali, mirate ad evitare la formazione o la crescita del deficit pubblico e la cui formulazione era stata – come si è visto in precedenza – consentita dalla parziale sopravvivenza delle radici liberali sulle quali si fondava comunque la futura costituzione economica repubblicana. In effetti, se si osservano tali disposizioni con la dovuta attenzione e sotto questa precipua prospettiva, ci si avvede come esse mirino a (o, comunque, finiscano nel) porre nel loro insieme precisi limiti – in teoria – insormontabili all’ampiezza degli interventi della “Repubblica” (per usare il termine scelto per l’art. 3, II comma, Cost.) nel campo sociale e nel suo ruolo interventista nell’economia e, nel contempo, pongono precisi seppure indiretti limiti alla spesa pubblica e all’indebitamento (escludendolo) con disposizioni la cui osservanza avrebbe probabilmente condizionato il tumultuoso e disordinato processo di formazione del sistema del welfare, evitando contestualmente alcune discrasie (eccessi, sprechi, dispersione di risorse) che caratterizzano negativamente quello poi di fatto venuto in essere.

Per quanto concerne il primo aspetto, numerose disposizioni costituzionali confermano al di là di ogni dubbio, l’intento di dare agli interventi dello Stato sul sociale un carattere non generalizzato, parziale e spesso di portata meramente integrativa dell’attività dei privati (si direbbero, oggi, di sussidiarietà orizzontale), rendendo in tal modo meno gravosa l’attività delle istituzioni pubbliche, specie dal punto di vista finanziario. D’altronde, come è stato dai più osservato, la disposizione-principe dello stato sociale, ossia l’art. 3, II comma, Cost., evidenzia con la sua precisa formulazione come i beneficiari degli interventi della Repubblica per l’attuazione del principio dell’eguaglianza sostanziale siano i singoli cittadini o tutt’al più gruppi di cittadini o di lavoratori, escludendo ogni forma di intervento generalizzato in quanto diretto ad incidere sul complessivo assetto sociale del Paese. In aggiunta e in coerenza con questa linea logica di fondo, si pongono le disposizioni di dettaglio che evidenziano il carattere di non generalità e integrativo degli interventi imposti dalla Costituzione in specifici ambiti. Si consideri la parzialità del supporto economico alla famiglia “con particolare riguardo alle famiglie numerose” (art. 31, I comma, Cost.) o garantendo “cure gratuite agli [ai soli] indigenti” (art. 32, I comma, Cost.) o lasciando spazio, senza oneri per lo Stato, all’istruzione privata (art. 33, III comma, Cost.) e all’assistenza privata (art. 38, V comma, Cost.) o anche, per rendere effettivo il diritto allo studio ma solo a favore dei “capaci e meritevoli” (art. 34, III e IV comma, Cost.). Come pure possono essere ricondotti al medesimo orientamento logico gli articoli 36 e 38 Cost. nei quali gli interventi di sostegno vengono graduati e dosati, si potrebbe dire, con la precisione e oculatezza di un farmacista, garantendo agli inabili al lavoro “i mezzi necessari per vivere” ove mancanti (art. 38, I comma, Cost.) o un sistema previdenziale mirato a fornire ai già lavoratori i “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita” (art. 38, II comma, Cost.). Mentre una dovuta maggiore «larghezza» può essere riscontrata solo nella disposizione fondamentale dell’art. 36 Cost., riguardante il principio cardinale della garanzia della retribuzione, in ogni caso sufficiente ad assicurare ai lavoratori e alle loro famiglie “un’esistenza libera e dignitosa”, occorrendo, tuttavia, tenere presente che tale incombente è a carico dei datori di lavoro e non dello Stato.

D’altra parte, il testo costituzionale evidenzia l’attenzione prestata al secondo elemento – altrettanto essenziale per una razionale costruzione dello stato sociale – e consistente nella necessità che la provvista delle occorrenti risorse pubbliche venga compiuta senza procedere all’indebitamento dello Stato. E, come è ovvio, tali risorse sono individuate in via principale nel prodotto del prelievo fiscale che è coerentemente motivato come concorso “alle spese pubbliche”, secondo il criterio della progressività che pure risponde alla logica dell’eguaglianza sostanziale e dello stato sociale (art. 53 Cost.). Mentre la disciplina contenuta nell’art. 81 Cost, è mirata a mantenere l’equilibrio tra entrate ed uscite, sia attraverso le precise limitazioni imposte alla legge di bilancio, sia con la stringente regolazione delle leggi introduttive di nuove spese. Questo secondo complesso di disposizioni ha quindi una logica di fondo individuabile nella chiusura in dimensioni razionalmente delimitate e virtuose del futuro potere d’intervento pubblico, dacché esso ha la manifesta finalità di contenere l’ammontare delle risorse finanziarie conseguibili dalla mano pubblica e perciò disponibili per l’intervento della Repubblica per la rimozione dei c.d. “ostacoli”, quando questa comporti la necessità di nuova spesa pubblica. Ciò vale in primo luogo con riguardo al prelievo fiscale, il quale deve – pur conformandosi nel suo complesso al criterio di progressività – rispettare in ogni caso la capacità contributiva dei cittadini, senza pervenire ad eccessi di natura espropriativa o in grado di incidere sulle loro condizioni sociali, come rilevato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Ma ciò vale anche in connessione al divieto di produrre debito pubblico attraverso le leggi di spesa.

Si aggiunga, infine, che le disposizioni sull’intervento dello Stato nell’economia non sono state quantomeno in origine, lette come un strumento per la ulteriore produzione di risorse per l’attuazione dello stato sociale. È evidente, infatti, che l’art. 43 Cost. riallaccia il sistema ad economia mista prevalentemente, se non soltanto, al fine dell’assolvimento di “preminente interesse generale” e a quello di garantire, semmai, l’imposizione di prezzi controllati per i servizi pubblici e per i beni prodotti in monopolio, consentendo in tal modo un intervento diretto sul sociale ma non necessariamente mediante la creazione di deficit se non a livello aziendale (restando comunque escluso che, a livello statale, possa valere come regola generale la possibilità di produrre nuova occupazione a prescindere dal rispetto delle regole economiche e della buona amministrazione).

6. Il superamento, se non lo sfondamento, di questa fragile linea di difesa contro i rischi tipici dello stato sociale, ossia quello del forte indebitamento pubblico, è avvenuto grazie al generalizzato consenso del sistema partitico e al conseguente rapido crescendo delle scelte compiute dalla politica nazionale sempre più lontane dai criteri della corretta gestione economica e del pareggio di bilancio. Ed è, questa vicenda, una prima rottura delle regole di fondo della costituzione economica voluta nel 1947. Di certo, i due partiti della sinistra, pur sconfitti nello scontro avvenuto in sede di determinazione delle grandi linee del futuro regime democratico, non hanno mai rinunciato al tentativo di procedere alla costruzione di uno Stato con una connotazione più socialista che sociale. Ma, per molti versi non è stata da meno la Democrazia Cristiana, che ha retto direttamente le sorti del Paese per oltre un quarantennio, proponendosi come partito pluriclasse e mai distaccato dalle originarie logiche populiste (il termine è forse eccessivo ma indicativo) dell’antico Partito Popolare. D’altronde, tutte queste predominanti forze politiche sono state facilitate nel loro operato dalla già menzionata forma anfibologica delle diverse disposizioni costituzionali relative alla costituzione economica che consentiva una loro residuale interpretazione classista e, comunque, di appellarsi all’innegabile rilevanza del principio lavorista che le connota.

E, in effetti, sebbene i due partiti auto-qualificatisi come rappresentativi dell’intera «classe» dei lavoratori subordinati, fossero usciti dalla compagine del governo dalla fine del 1947, essi hanno potuto operare con efficacia utilizzando gli strumenti a disposizione dell’opposizione nonché il sindacato unificato, lo sciopero e la piazza. A questo ultimo proposito, la concomitanza del fenomeno della totale unità d’intenti (peraltro sulle linee programmatiche della sinistra) delle confederazioni sindacali e dell’uso politico dello sciopero e il continuo ricorso a clamorose manifestazioni sono stati strumenti sufficientemente forti e in grado di condizionare le politiche e le scelte economiche governative. Occorre ricordare come, con tale modus operandi, essi abbiano creato le premesse per la rapida caduta nel 1960 del governo Tambroni, l’unico che – prima del 1994 – sia stato sostenuto da un partito di destra. Caduta che deve essere anche letta come un momento di svolta del confronto tra cattolici e marxisti.

Ma non minore rilievo ha avuto la capacità dei due partiti di operare con decisione e compattezza in sede parlamentare, avvantaggiati dal fatto di disporre di un preciso modello (in primis, quello sovietico) e di linee programmatiche, peraltro, già efficacemente applicate dai loro rappresentanti in sede di Assemblea costituente e utili per affrontare le diverse questioni di volta in volta sui tavoli della politica. Né è, pertanto, casuale che, quando si è indebolita la spinta innovatrice della Democrazia cristiana e dei piccoli partiti ad essa alleati, il «nuovo» si è spostato nell’ambito della sinistra. Quest’ultima, inoltre, ha anche potuto consolidare il suo predominio in termini di valori e di cultura (non solo economica), in quanto redditizi strumenti per il confronto politico e per il completamento della costituzione economica nella forma da essa propugnata. Si pensi al rifiuto di valori rinvenibili – come si è visto – nella Costituzione quali quelli del merito, dell’efficienza economica e della produttività del profitto, della ricchezza in genere e della sussidiarietà orizzontale, rifiuto che ha posto in essere vere e proprie parole d’ordine che hanno modificato fortemente la cultura non solo giovanile e i valori sentiti in ampia parte della società civile e politica, consolidando una lettura di sinistra delle disposizioni della costituzione economica, e che perciò sono sopravvissute in Italia molto più a lungo che in altri Stati europei, anche in ragione del loro utilizzo da parte del più forte e avanzato partito comunista europeo.

7. Di talché non può sorprendere, dapprima, il notevole livello di attuazione dell’atteso sistema delle garanzie e delle tutele del lavoro e dei lavoratori raggiunto grazie anche alla progressiva entrata nell’area di governo dei due partiti di sinistra allorché si sono allontanati (in tempi diversi) dalla matrice marxista, e, in secondo luogo, il conseguimento – da parte delle confederazioni sindacali – della legittimazione a partecipare alle scelte della politica nazionale, peraltro, non solo nel campo strettamente economico (fino al punto di essere state chiamate a qualche consultazione presidenziale in vista della formazione del governo). Il progressivo avvicinamento di queste forze politiche e sindacali alle sedi centrali delle decisioni d’indirizzo politico è apparso, d’altronde, coerente con il disegno costituzionale come questo è stato interpretato dalla predominante dottrina e dalla giurisprudenza, nonché dalla intellighenzia e dai media più diffusi a partire dagli anni ’70. A tale vicenda si riallaccia altresì la rilettura delle disposizioni costituzionali sullo stato sociale, mai chiaramente distinte da quelle concernenti il lavoro, alla luce di una sproporzionata valorizzazione dei richiami originariamente non ideologizzati al lavoro e ai lavoratori, inseriti negli artt. 1 e 3, II comma Cost. solo a seguito delle vicende dell’Assemblea costituente che sono state ricordate all’inizio di questa introduzione. È ben noto, in proposito, come l’attuazione del principio lavorista si sia risolto con un multiforme e laborioso processo di perfezionamento (che, peraltro, è sempre in corso) delle tutele del lavoro e degli ammortizzatori sociali per i lavoratori, cui hanno fortemente contribuito le confederazioni sindacali. E non è perciò casuale che il punto di arrivo sia lo Statuto dei lavoratori che, a coronamento di una stagione storica del tutto peculiare della vita della Repubblica, ha codificato i più avanzati principi di garanzia dei lavoratori nell’ambito di un sistema organizzativo nel quale sono anche assegnati rilevanti poteri alle organizzazioni sindacali e alle loro rappresentanze.

Sul piano più strettamente sociale, le politiche condizionate dalle opzioni della sinistra e mirate al riequilibrio tra le «classi»; opzioni più conformi a logiche socialiste ed egualitariste (tendenti all’appiattimento della società e alla tutela sociale generalizzata e di basso livello) che al principio di eguaglianza sostanziale del II comma dell’art. 3 Cost. (il quale, come è stato spesso ma vanamente affermato, ha solo lo scopo di garantire ai cittadini gli elementi di base per potere partecipare e confrontarsi con gli altri nell’attività economica, sociale e politica e non: la c.d. parità dei “punti di partenza”) hanno finito per concludersi anche con l’impianto di un welfare state pesante (perché destinato alla generalità di soggetti) e perciò costoso, sostanzialmente inadeguato alle necessità dei soggetti realmente bisognosi di tutela e, infine scarsamente liberale. Pur non volendo, con ciò, negare il merito in se e per se di tale realizzazione, anche se non compiuta nel rispetto dei dettati della Costituente. Si pensi, solo per menzionare qualche esempio, al caso dell’istruzione pubblica: all’appiattimento forzato dei diversi tipi di scuole, all’allargamento indiscriminato e alla fin-fine fallimentare -dal punto di vista qualitativodell’istruzione post-scolastica, come dimostra il livello della c.d. università di massa italiana nel confronto internazionale; si pensi al caso del sistema sanitario nazionale dispendioso oltre ogni limite e che offre assistenza gratuita anche a chi potrebbe in qualche modo contribuire (in violazione della logica selettiva di cui all’art. 36 Cost.) e ai non residenti o al permissivismo tradizionale nel campo dell’assistenza agli invalidi.

Ancora più distorti appaiono, grazie al filtro della verifica storica, gli effetti prodotti sul «cuore» della costituzione economica concretamente venuta in essere a causa della stessa visione logica socialista che, nel campo economico, si è riassunta primariamente nel principio di garanzia della massima occupazione. È a tale concezione (ma non solo) che si riallaccia il dirompente interventismo statale che, era stato invece previsto per limitate ipotesi dall’art. 43 Cost. Interventismo il quale si è, da un canto, allargato a tutte – nessuna esclusa – le fonti di energia, i servizi pubblici di qualsivoglia natura di interesse generale e i monopoli e, d’altro canto, si è ulteriormente esteso, operando con gli strumenti del salvataggio industriale posti dal fascismo con l’IRI, perseguendo il fine, raramente rispondente a logiche economiche, della conservazione dei posti di lavoro attraverso la presa in carico dello Stato (e delle sue finanze) delle imprese decotte o comunque destinate ad uscire dal mercato. Con ciò violando non solo il ben noto art. 43 Cost. ma anche il criterio dettato – con valenza manifestamente generale – dal successivo art. 46 Cost., secondo il quale la “elevazione economica e sociale del lavoro” deve essere condizionata (“in armonia”) alle esigenze della produzione. Di talché, agli smisurati costi dell’avvolgente sistema di protezione sociale si sono pure aggiunti quelli di una preponderante attività produttiva statale o esclusiva o partecipata, prescindente dalle regole della concorrenza e del mercato, ma mirata alla crescita o alla salvaguardia, a tutti i costi, dei livelli occupazionali e spesso appesantita da pratiche di assunzione legate a logiche di politica clientelare, con un continuo sperpero di risorse economiche e con la conseguente spinta verso un progressivo aumento della pressione fiscale. Un accadimento, questo, che ha avuto quale presupposto il consenso generalizzato della politica riguardo alla continua elusione delle disposizioni costituzionali sul bilancio e sulle leggi spesa, portando a lungo andare il deficit pubblico ad un livello esorbitante e anche esso unico tra i Paesi occidentali. Per non dire, infine, dei danni indiretti, legati alle ricadute di tale malformato sistema produttivo, sugli spazi residuali dell’iniziativa economica privata sulla quale si era fondato lo sviluppo economico nazionale precedente la nascita della Repubblica e perfino il boom economico post-bellico. Considerazione che vale con speciale riguardo alle imprese di dimensioni grandi e medio-grandi, sostituite in troppo ampia parte dalla industria pubblica e indebolite dall’assorbimento delle risorse finanziarie da parte dello Stato e dalla sua amministrazione e dai vincoli normativi incidenti sul costo e la flessibilità del lavoro.

Mentre solo in fine, ma non perché meno rilevanti, possono essere ricordati gli ostacoli dell’inefficienza degli apparati pubblici e dalla carenza di infrastrutture, perduranti a causa della mancata riforma dell’Amministrazione pubblica e del decentramento autonomistico; del costo della politica e della corruzione; dell’evasione fiscale e della fuga dei capitali all’estero causate anche dalla eccesiva pressione fiscale e dall’inefficienza delle istituzioni pubbliche. Un assetto economico, dunque, bloccato in un circolo vizioso che appare incoerente con pur sintetiche disposizioni economiche della Costituzione. Ma ciò che più conta, un assetto che, nel suo complesso, ha posto in difficoltà il sistema Italia (a prescindere di alcune nicchie di eccellenza), dapprima, nel confronto prodotto dall’apertura delle frontiere commerciali all’interno della Comunità europea e, poi, nella dura e continuativa guerra commerciale che costituisce, almeno ad oggi, l’economia globale.

8. Questo irrazionale e squilibrato sistema sociale ed economico (che costituiva un unicum nel suo genere e del quale non è dato sapere a che esiti avrebbe portato il Paese ove fosse rimasto ancorato ai medesimi principi e criteri organizzativi) è stato per buona sorte già superato in alcune delle sue componenti. Ha, infatti, preso l’avvio una nuova vicenda che, almeno nella fase iniziale, si è snodata solo (o prevalentemente) per cause «esterne», dato che l’attenzione della politica e della dottrina è stata per lo più rivolta, negli ultimi decenni, al nodo della questione istituzionale e che i problemi della costituzione economica – quantomeno come oggetto complessivo di rinnovamento – sono rimasti solo sullo sfondo. Il primo fattore dell’avvio di questa svolta (che può collocarsi a partire della fine degli anni ottanta) è, infatti, rinvenibile nell’intromissione dei principi della Comunità europea e, quindi, delle normative attuative da questa emanate, la cui vincolatività è apparsa evidente solo con ritardo dopo la sua forzata applicazione da parte della Corte di giustizia europea e a seguito delle ripetute sanzioni comminate allo Stato italiano dalla Commissione di Bruxelles. Le regole ben più liberali dettate dal Trattato di Roma si sono pertanto imposte nell’ordinamento interno, sovvertendo non tanto i principi della Costituzione che sono comunque da esse notevolmente ritoccati, quanto piuttosto il modo in cui essi erano stati fino ad allora interpretati ed attuati.

Comunque sia, il quadro dei principi reggenti la costituzione economica del 1947 è stato modificato perché i preminenti principi comunitari del mercato e della libera concorrenza hanno pesantemente sfrondato lo smisurato interventismo pubblico e la creazione di privilegi e trust favoriti dalla politica che erano stati concretamente posti in essere sulla base dell’interpretazione forzata in senso socialista delle disposizioni limitative della proprietà e dell’iniziativa economica private. Gli effetti di tali innovazioni non sono di certo mancati; basti pensare alla progressiva fuoriuscita dello Stato dalle banche e dall’imprenditoria, dai servizi nazionali e dai monopoli, anche se a seguito di processi di privatizzazione non sempre effettivi o completi o ben riusciti; basti, inoltre, rammentare la produzione del diritto interno antitrust e la liberalizzazione dei servizi pubblici; l’istituzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato e delle altre autorità indipendenti. E similari considerazioni possono essere svolte, anche se ciò è avvenuto (o meglio, sta avvenendo) molto più di recente, riguardo alla disciplina costituzionale del diritto di proprietà, le cui limitazioni hanno di recente iniziato a cadere sotto il vaglio censorio della giurisprudenza della CEDU, che ha sanzionato la non conformità ai diritti dell’uomo delle eccessive limitazioni alla proprietà privata e della disciplina dell’indennizzo da espropriazione, poste dalla legge italiana.

È in tal modo avvenuto che il diritto europeo ha riportato in luce le basi di origine liberale che stavano sullo sfondo della costituzione economica, sebbene non sempre espressamente evidenziate nel testo della Carta del 1947. Sfortunatamente, questo processo di assimilazione progressiva dei principi liberali è stato oltremodo lento e laborioso ed è stato causa ed effetto di una scelta di fondo, più o meno inconsapevole ma comunque foriera di scarsa chiarezza: quella, cioè, di non provvedere, con una o più apposite leggi di revisione costituzionale, all’inserimento formale nella Costituzione delle nuove regole di valenza costituzionale derivate dall’ordinamento europeo. Una scelta che trae origine da più ragioni, tra le quali, oltre al fatto di considerare compatibili le disposizioni dei Trattati comunitari con quelle della Carta del ’47, ove correttamente interpretate, oltre al fatto di ritenere non necessaria una legge costituzionale per l’applicazione interna del diritto comunitario alla luce della nota interpretazione estensiva dell’art. 11 Cost., vi è stato certamente il rifiuto di ampia parte dei partiti e del sindacato di accettare pienamente il rovesciamento dei principi costituzionali sui quali stata costruita la loro rilevante posizione nell’attuale assetto di potere politico ed economico. Ed è proprio quest’ultima ragione, ossia del radicamento di un’interpretazione forzata delle disposizioni costituzionali che rende utile e necessaria l’integrazione formale del testo costituzionale con i principi comunitari.

Per quanto, invece, riguarda il sistema di protezione sociale, l’assenza, fino al Trattato di Amsterdam, di qualsiasi riferimento nelle norme comunitarie alle finalità sociali ha certamente inciso, consentendo di non procedere alla rivisitazione del welfare state italiano che è in tal modo pienamente sopravvissuto. Un esito, questo, certamente lodevole in quanto si tratta di una conquista democratica, da considerare in buona parte irrinunciabile. D’altronde, solo da quel Trattato in poi gli accordi comunitari hanno maggiormente incentrato la loro attenzione sulla regolazione comune degli interventi pubblici nel sociale, facendo finalmente eco alle tradizioni ormai consolidate della maggiore parte degli Stati membri.

La sopravvivenza di questo dei due rami della costituzione economica italiana, unitamente a numerosi altri fattori, tra i quali, in particolare, la sopravvivenza delle logiche (ancora vive nel sindacato e nella sinistra politica) della massima occupazione o quanto meno del netto rifiuto della perdita di posti di lavoro anche a prescindere delle regole del mercato, hanno annullato i benefici effetti sulla spesa e sul deficit pubblici che potevano attendersi dell’uscita dello Stato dal mondo della produzione. Ma vanno anche messi in conto il peso delle ripetute e prolungate crisi internazionali, le mancate riforme per il ridimensionamento della pubblica amministrazione e delle autonomie territoriali, l’inadeguatezza dei tentativi di aziendalizzazione degli uffici pubblici, il costo sempre crescente della «politica», per non dire della corruzione ancora diffusa.

Il perdurare di questa situazione impedisce di ricondurre in un circolo virtuoso l’assetto della finanza pubblica e di dare piena funzionalità al sistema produttivo italiano; inoltre, rende perfino impensabile il poter iniziare ad affrontare la sfida nodale dell’arresto della crescita dell’enorme debito nazionale, per non dire della sua riduzione. È un bene perciò che il Paese, con l’evidente consenso preventivo delle economie più forti e misurate del Continente, abbia accettato (sbagliando, tuttavia, nel non porre precise condizioni sul rapporto Lira/ Euro) di partecipare alla prova ancor più impegnativa della partecipazione alla moneta unica europea e del permanente rispetto dei parametri fissati dal Trattato di Maastricht. In un certo senso, con tale decisione, l’Italia ha convenuto sulla necessità di una conduzione indotta dal livello europeo del rinnovamento del sistema Paese anche perché si è trattato di una scelta obbligata di fronte alle minacce del globalismo economico. È, infatti, solo in questo contesto che può credersi, iniziando con il rispetto del parametro sul disavanzo annuo ammissibile, di non considerare più un mero miraggio l’abbassamento del deficit pubblico con le conseguenti ricadute sulla pressione fiscale e, infine, sulla competitività del sistema produttivo. E difatti, qualcosa, da ultimo, si sta muovendo. Di fronte alla sfida per il rinnovamento, imposta dalla globalizzazione dell’economia e dall’emergere di nuove e aggressive potenze economiche, la logica dell’occupazione a tutti i costi e la sopravvivenza di elefantiaci e costosi apparati pubblici, tuttora troppo centralizzati, che assorbono per spese inutili una larga quota del prodotto nazionale, sono state finalmente considerate inaccettabili da ampia parte dell’opinione pubblica e degli elettori che si sono pertanto schierati con il polo portatore di un programma più sinceramente liberale, ossia con il centro-destra. Frutto fondamentale di questo processo è non tanto la rottura dell’unità sindacale, che non è un valore in sé, bensì il fatto che si sia infranto il fronte della politica sindacale dell’occupazione ad ogni costo e dell’attenzione solo nei riguardi dei già lavoratori, in quanto la larga maggioranza delle confederazioni, ad eccezione della CGIL, si sono poste in una prospettiva più responsabile e attenta all’interesse generale e nazionale, degradando l’antico mito e ricercando in sua vece soluzioni concordate, che armonizzino il pieno diritto al lavoro con “le esigenze della produzione” (per esprimersi con le parole utilizzate dai Costituenti nell’art. 46 Cost.), quale può essere una più articolata politica di valorizzazione degli ammortizzatori sociali e un nuovo sistema di garanzie dell’accesso al lavoro che favorisca la sua flessibilità e la riduzione del suo costo nonché, di conseguenza una maggiore efficienza e produttività. Anche la gravissima crisi economica globale ha avuto il merito di fare riscoprire il ruolo cardinale dell’iniziativa economica privata ed anche della piccola e media industria nonché dell’artigianato e l’esigenza di nuove forme di tutela del lavoro c.d. indipendente.

Certo, molto ancora resta da fare anche sul piano della ricostruzione della costituzione economica e per la sua nuova attuazione. Ma sono già sul tavolo della maggiore parte delle forze politiche del governo riforme fondamentali, tra le quali – non ultima – quella del federalismo fiscale la quale, al fine di evitare l’effetto di un pernicioso aumento della spesa inutile o duplicata, presuppone una previa determinazione, in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale, delle funzioni che debbano continuare ad essere svolte dalla mano pubblica e tra queste quelle da trasferire alle autonomie territoriali sulla base di un previo conteggio dei relativi costi, spossessandone l’Amministrazione centrale. Solo in questo modo può pensarsi di potere ridurre la elevatissima percentuale (pari oggi al 50%) del prodotto nazionale che viene assorbita dal sistema fiscale e assegnata alla pubblica amministrazione. Dando per intangibili le conquiste dello stato sociale, la strada percorribile non sembra molto diversa da quella dei progetti di riforma e delle attività dell’esecutivo in corso per la razionalizzazione e la riduzione delle perdite e degli sprechi del sistema assistenziale e di quello sanitario, con adeguati controlli di efficienza e di buona e corretta amministrazione. È di questi ultimi mesi la notizia che il bilancio dell’INPS passerà all’attivo nel 2010: è dunque possibile mantenere il welfare riducendone i costi per lo Stato e per avviare un circolo di progressiva riduzione della spesa sociale. E, poiché l’attuale coda della più grave crisi economica degli ultimi ottanta anni giustifica il rinvio (ma brevissimo e conteggiabile in mesi) dell’abbattimento della pressione fiscale, sono pure condivisibili gli interventi programmati per la tutela dei rapporti di lavoro (mediante l’uso della cassa integrazione), la realizzazione delle infrastrutture e quant’altro per il recupero della produttività. In breve, ogni azione pubblica indirizzata al sostegno della produzione, al rilancio della creazione di nuova ricchezza, al fine di porre le premesse di entrate fiscali inalterate a pressione tributaria fortemente ridotta. Per concludere, l’unica prospettiva utile può essere solo quella di una costituzione economica che si rifondi con i valori che erano sottesi al testo storicamente datato del 1947; e ciò con l’ausilio di due lenti. In primo luogo quella costituita dai principi dell’Unione europea, che ben possono subentrare alle regole dettate nel 1947 per superare gli squilibri e debolezze che caratterizzavano la società italiana dopo il ventennio fascista , la sconfitta bellica e la guerra civile. In secondo luogo, quella della consapevolezza della preminente necessità di restituire efficienza al sistema produttivo italiano, riesaminando (senza rovesciarlo) il rapporto fissato dal Titolo III della Parte II della Costituzione tra tutela del lavoro ed esigenze dello sviluppo. Ma per raggiungere effettivi risultati e uscire dall’attuale inarrestabile processo di declino, la società italiana dovrà anche riacquisire la cultura di valori presenti nella Costituzione, quali il merito, la selezione, l’autorità, l’autosufficienza e la preminenza dell’interesse generale e, dunque, modificare prassi e abitudini consolidate, quali quella della pretesa a una totalitaria rete di protezione da parte di uno Stato-madre, dal posto fisso garantito all’assistenza e previdenza gratuite, e (perché no?) di raggiungere la felicità principalmente con le proprie forze, contribuendo al contempo e come afferma la Costituzione, “al progresso materiale o spirituale della società”.