02 Marzo 2007  

Unifil: il fallimento della missione di D’Alema

Redazione

 

La missione italiana in Libano è il fiore all’occhiello della politica estera di Massimo D’Alema. La scorsa estate, con la reazione “sproporzionata” di Gerusalemme agli attacchi di Hezbollah, si è presentata finalmente l’occasione di dare un segno di “discontinuità”, urbi et orbi, rispetto agli anni bui del regime di Berlusconi e il ministro non se l’è lasciata scappare. D’accordo col Presidente del Consiglio, Romano Prodi, si è fatto promotore del potenziamento della forza d’interposizione Unifil in Libano, offrendo il contingente più numeroso (3 mila soldati) e richiedendone il comando (il 2 febbraio, il generale Graziani è subentrato al generale francese Pellegrini, famoso per le sue esternazioni antisraeliane). In questo modo, ha preso il via l’operazione Leonte, la più costosa della storia italiana: 600 milioni di euro all’anno, 100 in più di Antica Babilonia in Iraq e oltre il doppio dello stanziamento destinato all’Afghanistan. Scopo dichiarato dell’iniziativa il rilancio del ruolo dell’Europa e delle Nazioni Unite quali garanti della sicurezza in Medio Oriente.

Nell’ottica dalemiana (ampiamente illustrata al Senato il 21 febbraio nel discorso sulle linee guida della politica estera italiana), grazie al “cessate il fuoco tra le parti internazionalmente garantito, è stato possibile separare le dinamiche interne libanesi dal fronte esterno di una guerra con Israele”. Purtroppo, però, Hezbollah se ne infischia delle garanzie internazionali e considera il cessate il fuoco come una tregua a breve termine di cui approfittare per riorganizzarsi, con la protezione dalle possibili incursioni israeliane dello scudo umano offerto proprio dall’Unifil. E in attesa del momento propizio per sferrare un nuovo attacco al nemico giurato, cerca di mettere in ginocchio il governo Siniora, con l’obiettivo di dar vita a un esecutivo di unità nazionale dove abbia maggiore potere. La divisione tra fronte interno ed esterno vantata da D’Alema è dunque aleatoria e presumibilmente non durerà a lungo, tanto è vero che Nasrallah ha annunciato che la ristrutturazione delle capacità militari di Hezbollah è già stata ultimata. Il fatto grave è che sia avvenuta sotto il naso dell’Unifil, smentendo inequivocabilmente l’idea di D’Alema “che la sicurezza dello Stato ebraico può essere difesa meglio da una garanzia internazionale in cui l’Europa gioca un ruolo essenziale piuttosto che attraverso il ricorso a risposte militari nazionali”.

Le limitazioni che gravano sul mandato della missione rendono sostanzialmente inutile la presenza dei 13 mila soldati. In base alla risoluzione 1701, i caschi blu non sono autorizzati neppure a fare perquisizioni e a istituire check-point; possono intervenire soltanto su richiesta dell’esercito libanese che ha la responsabilità diretta nel controllo del sud del Libano, dal fiume Litani al confine con Israele. Ma le truppe di Beirut sono mal ridotte e soprattutto inaffidabili. I simpatizzanti del Partito di Dio e i filosiriani sono numerosi, specie tra i militari di origine sciita. I leader di Hezbollah hanno persino la facoltà di scegliere le unità dell’esercito libanese da schierare al sud e naturalmente prediligono quelle guidate da comandanti amici che assicurano libertà di manovra e non ostacolano il flusso di armi proveniente dalla Siria. Non stupisce, pertanto, che il supporto dei caschi blu venga richiesto assai di rado e che i sequestri di materiale bellico siano sporadici e meramente di facciata.È così che l’Europa pretende di garantire la sicurezza d’Israele.

Quanto si è verificato finora sul campo ha già decretato il fallimento della missione, mentre destano preoccupazione le molte incognite che si aprono sul futuro. Che farà il nostro contingente nel caso di una seconda guerra civile libanese o di nuovi scontri tra Hezbollah e Israele? È opportuno che i ministri degli Esteri e della Difesa predispongano con largo anticipo soluzioni adeguate a tali nefaste eventualità. Ad ogni modo, l’andamento della vicenda libanese, insieme alla condotta irresponsabile seguita in Afghanistan, è l’ennesima riprova del disimpegno morale del governo Prodi nella guerra al terrorismo e al fondamentalismo islamico. I soldati italiani svolgono mansioni a metà tra la Protezione Civile e la Caritas, sia in Libano, dove Hezbollah si riarma e punta a instaurare una teocrazia islamica, sia in Afghanistan, dove invece gli alleati americani, inglesi, olandesi, australiani e canadesi, combattono contro i talebani per impedire che nel paese si ristabilisca l’epicentro mondiale del terrorismo jihadista. E come se già non bastassero Prodi e D’Alema, a nascondersi sotto la bandiera della pace troviamo pure Chirac e Zapatero, altri due magistrali interpreti della decadenza europea continentale. All’Italia di Berlusconi, allora, va dato atto di aver operato una netta scelta di campo e non a favore di quello avversario.