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La relazione finale che il gruppo per le riforme istituzionali è riuscito a presentare al Presidente della Repubblica nel termine brevissimo di circa dieci giorni rappresenta la sintesi di considerazioni generalmente condivise dai vari membri del gruppo su molteplici problemi di alto profilo costituzionalistico.

E’ encomiabile lo sforzo compiuto per dare una risposta concreta al compito d’incerta natura ausiliaria che è stato loro affidato anche se, probabilmente, per la ristrettezza del tempo a disposizione e  per la mancanza di totale condivisione sui molteplici problemi trattati, la relazione appare non del tutto omogenea. E’ comunque in chiave collaborativa che, in ordine sparso, proverò a segnalare alcuni punti della relazione che, a mio avviso, meritano ulteriori riflessioni.

La sensazione di disomogeneità nasce dalla constatazione che, non soltanto alcune questioni vengono appena accennate (ad es. punto 16 sul bicameralismo), mentre altre sono analizzate in dettaglio (punto 18 sul funzionamento delle Camere), ma che alcuni suggerimenti non sono diretti al legislatore costituzionale naturale destinatario di riforme istituzionali, ma ad altri soggetti.

Nella relazione, ad esempio, si fa rinvio a modifiche dei regolamenti delle Camere (punto 18) nonostante questi costituiscano, a tutt’oggi, fonte di consacrata intangibilità ed impermeabilità a poteri esterni.

Appare, per altro verso, eccessiva la riforma contenuta nel punto 12 della relazione perché nel prevedere l’istituzione di una Commissione redigente mista di parlamentari e non parlamentari cui è affidato un ruolo determinante nel processo di revisione costituzionale, ignora il travolgimento dell’art. 138 Cost. che tale innovazione comporta e che forse potrebbe ritenersi illegittimo, anche per il legislatore costituzionale, per violazione del limite dei principi costituzionali.

Ed è sempre nell’area di confine dei principi costituzionali che si muove la relazione quando in tema di principio di “legalità” (inteso come subordinazione dei cittadini al comando della legge e non già della P.A. alla legge del Parlamento), in nome dell’esigenza di certezza delle regole di comportamento vengono proposti consistenti limiti ai poteri interpretativi dei giudici (punto 11).

In tema di referendum, invece, mentre condivido appieno la necessità di sottoporre a separate approvazioni le singole parti omogenee del testo della legge costituzionale, al fine di evitare di falsare l’effettiva volontà del popolo, attraverso l’unificazione del quesito,  in merito al referendum abrogativo ritengo democraticamente irragionevole premiare la disaffezione dei cittadini alle elezioni politiche con l’abbassamento del quorum necessario per ottenere l’abrogazione in via referendaria.

Sempre in chiave collaborativa è possibile notare che la preferenza accordata alla forma di governo parlamentare rispetto a quella semipresidenziale, difficilmente può essere fondata sul richiamo al periodo di crisi in cui il Presidente, nonostante il regime parlamentare, finisce per assumere, extra ordinem, il ruolo di reggitore dello Stato.

Tale assunzione di poteri non può certamente essere giustificata con il carattere neutrale del Presidente, ma, tutt’al più, facendo appello alla necessità istituzionale che potrebbe però invocarsi in qualsiasi forma di governo. Vera la premessa, la scelta dovrebbe propendere per una forma di governo semipresidenziale: il Presidente eletto direttamente dal Popolo non avrebbe bisogno di ricorrre alla necessità e al suo incerto fondamento giuridico per assumere il ruolo di salvatore della Patria, perché questo è il compito che gli viene affidato fin dal momento dell’investitura.

Così non mi ha mai convinto l’asimmetria tra fiducia a maggioranza semplice, e sfiducia a maggioranza assoluta, come è stato invece riproposto nella Relazione, perché il rapporto di fiducia dovrebbe intercorrere unicamente tra il Parlamento ed il Governo che viene nominato a maggioranza semplice. E’ ad entrambi questi soggetti che andrebbe, quindi, riconosciuto lo stesso potere di sciogliere il rapporto che li lega.

Il suggerimento del superamento del bicameralismo paritario è invece del tutto condivisibile anche se l’elencazione puntuale delle eccezioni sembra disomogenea in un testo dedicato alle convergenze sulle grandi linee della futura riforma istituzionale. Ma la stessa anomalia contrassegna la dettagliata disciplina del procedimento legislativo (punto 18), in merito alla quale, peraltro, l’obbligatorietà della presa in considerazione prevista soltanto per i progetti di legge d’iniziativa popolare e regionale appare di difficile giustificazione.

Lodevole è invece il trasferimento del giudizio sui titoli di ammissione dei membri del Parlamento da ciascuna Camera ad un giudice indipendente e imparziale. Sebbene non sia stato identificato nella relazione, in nome della sovranità del Parlamento, riterrei debba trattarsi di un giudice speciale istituito, con apposita disposizione costituzionale.

Nel settore regionale, mentre è dichiarata un’inversione di tendenza in direzione statalista in tema di competenze legislative regionali, il consolidamento del federalismo fiscale sembra andare in direzione opposta.

Sul delicato tema della responsabilità dei giudici mi limito ad osservare che la relazione oscilla tra una visione meramente deontologica (punto 11) e quella disciplinare (punto 27), anche se quest’ultima non è più riservata al sindacato degli organi di governo interno dei giudici in quanto la loro decisione è suscettibile di un secondo grado di giudizio affidato ad una Corte speciale di composizione mista sul modello della Corte costituzionale. Tale proposta che sembra voler compensare il silenzio sulla responsabilità civile dei magistrati è, peraltro, priva di ogni indicazione sulla disciplina da adottare per tale giudizio, in primo luogo sulla legittimazione all’impugnazione.

Infine, il mantenimento del finanziamento pubblico ai partiti politici giustificato con l’esigenza di garantire la correttezza della competizione democratica, suggerisce qualche riflessione sul finanziamento ai gruppi parlamentari (oltretutto d’incerto fondamento legislativo dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 3 della l. 195/74).

Questi, infatti, non soltanto non sono coinvolti nella competizione elettorale, ma non posseggono nemmeno altri titoli idonei a giustificare l’attribuzione di un autonomo contributo statale (ulteriore rispetto ai finanziamenti “interni” di cui gli stessi possono godere in virtù dell’autonomia contabile delle Camere), giacché le loro funzioni rientrano in quelle spettanti al Parlamento.