Congresso AIGA
Cari amici,
grazie innanzi tutto per avermi invitato a partecipare ai vostri lavori. Non è la prima volta che prendo parte alle vostre iniziative, ma l’occasione è particolarmente significativa perché proprio in questi giorni il Senato sta conducendo in porto un provvedimento importante per l’esercizio della professione di avvocato, con un nuovo passaggio in Commissione finalizzato a far sì che il testo finale possa essere il più condiviso possibile.
Nel corso dei lavori parlamentari, recependo una serie di istanze provenienti proprio dai più giovani, si sta compiendo ogni sforzo per addivenire alla migliore sintesi.
Senza snaturare le caratteristiche che rendono l’avvocatura una professione liberale, e dunque una maggiore facilità di accesso e la previsione ad esempio di minori oneri iniziali. Ma allo stesso tempo – e proprio nell’interesse dei più giovani – pensando a una più efficace regolamentazione e difendendo meglio le prerogative della professione, ivi compresa una riserva di attività che competa esclusivamente all’avvocatura.
Questo per evitare un saccheggio che da più parti si è tentato, e che porterebbe alla squalificazione della professione, a detrimento innanzi tutto di voi che avete il diritto e anche il dovere di guardare all’avvenire.
C’è poi una seconda ragione che mi rende particolarmente lieto di essere qui oggi. Siamo ormai alla vigilia dell’avvio di una riforma costituzionale della giustizia che i cittadini, gli operatori del settore e il Paese intero attendono da molto tempo.
Non a caso ho parlato di riforma della giustizia. Perché dalla spinta modernizzatrice che il governo e la maggioranza intendono imprimere a un sistema in grave affanno, dovrà emergere con chiarezza un profondo mutamento di prospettiva. A cominciare dall’architrave costituzionale di questa architettura, che fin dalla sua titolazione – “la giustizia”, appunto – dovrà rispecchiare l’approccio sistemico e strutturale. “La giustizia”, e non più l’ordine giudiziario nell’accezione corporativa del termine. “La giustizia” come servizio ai cittadini e non come esercizio di un potere troppo spesso autoreferenziale. “La giustizia” come funzione dello Stato a tutela dei singoli, della civile convivenza e del bene comune. Ed è proprio in questa visione, evidentemente, che il ruolo dell’avvocatura non potrà che essere ancor più valorizzato.
Ho letto le relazioni sulle quali i lavori del vostro congresso si sono concentrati, sul versante penale e civile: le analisi, le criticità, le proposte per una più equa ed efficiente amministrazione del servizio giustizia. Consentitemi intanto di dire che ne ho apprezzato la concretezza. Perché vedete, cari amici, brandire ideologicamente dogmi assoluti senza calarli nel corpo vivo della società, senza confrontarsi con la loro applicazione nella vita quotidiana delle Procure e dei Tribunali, senza considerare che anche la giustizia cammina sulle gambe degli uomini con i loro difetti e le loro storture, non solo serve a poco: è una pratica fuorviante che finisce per contraddire quegli stessi principi.
Un solo esempio basterà a esemplificare ciò che ho appena detto. In nome dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il nostro sistema giuridico non solo fissa il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma gli attribuisce rango costituzionale.
Non voglio dilungarmi sul fatto che questo dato rappresenti un’eccezione, se non addirittura un unicum, nell’ambito dei sistemi occidentali. Né intendo mettere in discussione il principio stesso. Ma faccio sommessamente notare che in un sistema gravido di fattispecie penali come il nostro, la preclusione aprioristica a immaginare criteri di razionalizzazione nell’esercizio dell’azione penale – pur senza discutere il principio – non solo non garantisce l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma è fra le principali cause di disuguaglianza. Disuguaglianze geografiche fra le diverse aree del Paese, disuguaglianze fra un ufficio giudiziario e l’altro, disuguaglianze dettate dalla sensibilità e dal modus operandi del singolo magistrato.
Eppure, solo ad affrontare l’argomento si rischia talvolta di esser tacciati di eresia. Ricordo bene con quali toni fu accolta una proposta del centrodestra finalizzata ad affrontare questo vulnus. E ricordo anche che venne giù il mondo quando il procuratore di Bari Antonio Laudati ruppe l’ipocrisia affermando che gli uffici giudiziari sono talmente ingolfati che certi reati si finisce col non prenderli quasi più neppure in considerazione. Prima di lui fu un altro magistrato, Marcello Maddalena, a porre con una famosa circolare il problema di come evitare che il principio astratto dell’obbligatorietà dell’azione penale sconfinasse concretamente in arbitrio. Ed è il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Michele Vietti, sulle pagine di Panorama in edicola, a sottoporre in questi giorni il tema all’attenzione di quanti hanno davvero a cuore la giustizia italiana.
Tutto questo per dire che se non ci si pone di fronte alla giustizia con un approccio sanamente laico; se non ci si impone di lasciare l’ideologia fuori dalla porta e di misurarsi con la realtà; se non ci si sforza di considerare la giurisdizione uno strumento per la tutela dei cittadini e per il perseguimento del bene comune, piuttosto che un fine in nome del quale calpestare diritti previi e finanche la dignità delle persone, non si andrà da nessuna parte.
Cari amici, nel prossimo futuro ci confronteremo sulle ricette specifiche e ci misureremo sugli articolati e sui provvedimenti. Ma da questa impostazione non defletteremo. Ed è la stessa impostazione che ci ha guidato fino ad oggi.
Vedete, ancora in questi giorni autorevoli esponenti dell’opposizione sono andati dicendo: “parlano tanto di riforma della giustizia ma l’unica legge su cui si sono impegnati è il lodo Alfano”. Non è così. Non perché il raffreddamento del conflitto tra giustizia e politica non sia fra le priorità del Paese, e su questo tornerò in conclusione di questo mio breve intervento. Ma perché, mentre i nostri avversari in questi due anni e mezzo hanno continuato a perseguire la via giudiziaria all’abbattimento dell’avversario politico, noi come primo passo abbiamo messo mano alla giustizia civile, le cui disfunzioni pesano come una zavorra di piombo sull’economia del Paese e sulla capacità dell’Italia di attrarre investimenti.
Abbiamo dotato quella grande squadra che si chiama Stato di strumenti legislativi efficaci e all’avanguardia per il contrasto alla criminalità organizzata, ponendo le premesse perché il Mezzogiorno possa rialzare la testa e agganciare il treno dello sviluppo. Abbiamo affrontato quella che era percepita dai cittadini come una vera e propria emergenza – la sicurezza – rendendo l’Italia protagonista nel governo internazionale dei flussi migratori, e non più anello debole dell’Europa sul quale scaricare oneri e problemi. Addirittura a volte, ad esempio sul 41 bis, abbiamo oltrepassato i paletti del garantismo, consci del momento storico e delle priorità che esso imponeva.
So che ad esempio rispetto al tema della giustizia civile nei vostri documenti congressuali non mancano osservazioni critiche e proposte per ulteriori interventi sul funzionamento del sistema.
Credo che il legislatore debba tener conto del parere di chi quotidianamente si misura con le ricadute concrete dei provvedimenti, specialmente quando tali opinioni non sono viziate da pregiudizio e vengono manifestate con spirito chiaramente costruttivo. Ma confido anche che le riserve sull’operato del governo e della maggioranza saranno suscettibili di riconsiderazione nel momento in cui le riforme già introdotte avranno avuto il tempo di sedimentarsi ed esplicare i loro effetti.
L’importante è non perdere mai di vista il principio di realtà. Quello stesso principio che mi porta ad affermare in questa sede che è giusto vigilare sui comportamenti, come voi chiedete. E’ giusto misurare le valutazioni con parametri razionali, come voi sollecitate. E’ giusto fare in modo che tali valutazioni siano svincolate da logiche corporative e da condizionamenti correntizi, e proprio in questa direzione andrà la riforma costituzionale alla quale il ministro Alfano sta lavorando.
Ma è altrettanto indispensabile incidere sulle norme. Perché c’è il serio rischio che molti degli abusi e dei casi eclatanti che hanno inferto un colpo mortale alla credibilità del sistema giudiziario, e tanto male hanno fatto anche a quella stragrande maggioranza di magistrati che ogni giorno compie il proprio dovere senza clamori e spesso con sacrifici personali, non abbiano costituito conclamate violazioni di legge, ma si siano consumati fra le pieghe della normativa vigente. Magari border-line, magari con progressive forzature interpretative che semmai verranno sanzionate, avranno provocato nel frattempo danni così profondi da essere difficilmente rimarginabili.
Ci sarà qualcosa che non va se sgusciando fra le maglie del sistema un pubblico ministero può conferire consulenze private milionarie per l’acquisizione di montagne di tabulati telefonici a un poliziotto in aspettativa sindacale che poi con l’interpretazione di quei tabulati riempie addirittura dei libri? Ci sarà qualcosa che non va se un’indagine sulle carte di credito maturata in quel di Trani può portare sui giornali le telefonate del presidente del Consiglio che parla del divorzio da sua moglie? Ci sarà qualcosa che non va se una Procura può indagare per anni su un esponente politico senza iscriverlo a registro, quindi formalizzare il capo d’accusa a suo carico e a ridosso di un importante appuntamento elettorale sfornare una richiesta di arresto preventivo – e sottolineo preventivo – per accuse di pentiti risalenti a quindici anni prima? Ci sarà qualcosa che non va se di uno strumento previsto dal codice come estremo, quale è la custodia cautelare, viene fatto un uso talmente disinvolto che metà della popolazione carceraria che affolla i penitenziari italiani è in attesa di giudizio? Ci sarà qualcosa che non va se ogni anno centinaia di migliaia di procedimenti cadono in prescrizione, e una gran parte di essi si prescrive addirittura nella fase delle indagini preliminari? Ci sarà qualcosa che non va se sempre più spesso nelle ordinanze vengono riversati fiumi di intercettazioni telefoniche, anche di persone estranee alle indagini, non funzionali rispetto alla misura di cui si dispone l’esecuzione ma certamente utili alla gogna mediatica?
Mi fermo qui per non tediarvi oltre, perché l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ciò che mi preme dire – e in ciò credo di interpretare il sentimento della maggioranza politica alla quale appartengo – è che come legislatori non ci sottrarremo alle nostre responsabilità. Voglio affermarlo con chiarezza, di fronte a voi che in qualche modo siete una loro controparte: non c’è in giro alcuna proposta di riforma che sia punitiva nei confronti dei magistrati, con i quali questo governo ha dimostrato di saper fare squadra più di ogni altro, e per rendersene conto basta scorrere i dati della lotta alla mafia.
Al contrario. Noi vogliamo che tutti i cittadini di cui voi rappresentate le istanze – le parti lese ma anche gli indagati e gli imputati – possano contare su una giustizia giusta. E vogliamo che quella stragrande maggioranza di magistrati perbene che popola i palazzi di giustizia del nostro Paese non debbano più subire sulla loro pelle, in termini di fiducia e credibilità, le conseguenze sciagurate dell’azione di una piccola minoranza rumorosa di toghe in cerca di ribalta, di potere, o addirittura in cerca di un sovvertimento della volontà popolare per via giudiziaria.Le nostre riforme sono per voi e per loro, oltre che per i cittadini. A cominciare da quelle che mirano a disinnescare e anestetizzare, senza per questo creare impunità, un rovinoso conflitto fra giustizia e politica che da sedici anni tarpa le ali al nostro Paese e gli impedisce di diventare un Paese normale. Ne ha da guadagnare la qualità della nostra democrazia, ma ne ha da guadagnare anche l’indipendenza del nostro sistema giudiziario. E solo da quel giorno, qualcosa in Italia potrà finalmente cambiare.
Gaetano Quagliariello, Presidente Onorario Fondazione Magna Carta.