02 Novembre 2011   •  News

Fare business in un Paese che non attrae e non cresce

Redazione

Si sente parlare molto di una possibile riforma del lavoro. Ce la chiedono la BCE, le imprese, gli investitori, ma anche semplici cittadini che hanno compreso che per guadagnare – e lavorare – bisogna necessariamente riformare il sistema che regola l’economia del nostro Paese. Sicuramente i sindacati italiani hanno grosse responsabilità nel mancato o rallentato sviluppo del sistema lavoro della nazione, ma anche i governi che si sono succeduti negli anni hanno fatto di tutto per non fare nulla. Se è vero infatti che lo sviluppo economico può essere condizionato da tantissimi aspetti, da quelli geografici a quelli culturali, passando per storia e meteorologia – e gli economisti per anni hanno dibattuto proprio su questo punto – è ormai provato che la crescita economica di un Paese sia profondamente condizionata dalle istituzioni, e quindi dai governi, che creano o meno attrattività per le imprese. Questa attrattività si compone di diversi aspetti, tra i più importanti (e interessanti) spiccano sicuramente la facilità di fare business e la tassazione, entrambi conseguenza ed effetto delle politiche pubbliche delle stesse istituzioni nazionali.

Per illustrare come funzionino questi due fattori in Italia, basta mettersi nei panni di due aspiranti imprenditori, che chiameremo – con o senza riferimenti particolari – Silvio e Pierluigi. I nostri due aspiranti soci hanno avuto una brillante idea per creare un business nei servizi. Essendo un’impresa del terziario (che comunque rappresenta il 70% del nostro PIL), non ha bisogno di particolari infrastrutture (per es. un oleodotto, una fabbrica), trasporti (essere vicini a un porto, strade, etc.) o location (in Europa, al Polo sud, etc.). I due imprenditori sceglieranno quindi dove investire valutando le condizioni economiche migliori per far crescere il loro business. Un aspetto da considerare sarà sicuramente la tassazione che in Italia sfiora, per le imprese, il 68% (dati World Bank). Guardando solo alcuni dei più importanti Paesi occidentali, siamo ben oltre il livello di Spagna (38%), Inghilterra (37.3%), Svizzera (30.1%) e Stati Uniti (46.7%).

Ma ai due soci Silvio e Pierluigi non interessano solo le tasse, ma anche – per esempio – i costi di fondazione che in Italia sono di 4000 euro, ma nel Regno Unito ammontano a 200 euro, negli Stati Uniti a 500 euro, e in Irlanda a 180 euro. Non sono solo i costi economici a essere maggiori in Italia rispetto a tutto il resto del mondo, lo sono anche i costi “temporali”, vale a dire l’ammontare di minuti utilizzati dall’imprenditore in un anno per gestire la parte fiscale/burocratica dell’impresa. Anche in questo caso l’Italia registra il triste record di 15 pagamenti diversi per un totale di 285 minuti all’anno. Più del doppio di Gran Bretagna e USA, quasi il triplo di Irlanda e Francia. In questo contesto abbiamo evitato di parlare di realtà quali Hong Kong, Dubai o Singapore: in quel caso il confronto avrebbe sfiorato il ridicolo (tasse inferiori all’Italia del 50% e costi bassissimi di gestione). Pensate ogni giorno quanti imprenditori consultano questi dati (accessibili a tutti tramite la Banca Mondiale) per decidere “dove” fare business. E, almeno per il terziario, l’Italia non sembra la meta migliore.

Quello appena commentato è un sistema che penalizza tutti, non solo le imprese, ma anche i disoccupati e persino gli occupati stessi, costretti a sopportare stipendi bassissimi e contratti precari per effetto di tassazioni e legislazioni anti-business. Vista l’attuale situazione economica risulterebbe quindi necessario e allo stesso tempo urgente non solo aumentare la flessibilità del lavoro, come già annunciato dal Governo, ma anche diminuire i costi fissi e burocratici che riguardano le imprese e infine – naturalmente – ridurre la massa delle tasse e imposte diversamente gravanti sul sistema complessivo.