Giustizia, nessun intento punitivo. La riforma renderà il sistema più efficiente
Cari amici,
torno a Bari a una settimana di distanza per parlare più o meno del medesimo tema, la giustizia, in due contesti che un radicato luogo comune vorrebbe antagonisti se non addirittura avversari: un congresso di giovani avvocati, e un convegno dedicato soprattutto ai magistrati. Avevo messo in conto di dover affrontare temi diversi perché diverse erano le esigenze dei due uditori, differenti le problematiche, inconciliabili le aspettative. E invece, mi sono trovato a ragionare sull’uno e sull’altro appuntamento certamente con declinazioni diverse, ma al fondo senza soluzioni di continuità.
Perché dico questo. Perché alla base del progetto di riforma che il governo e la maggioranza intendono portare avanti, prima ancora di ricette e misure specifiche sulle quali ci sarà il massimo confronto, vi è innanzi tutto un approccio alla questione giustizia a tal punto nuovo rispetto al consolidato senso comune da potersi definire “rivoluzionario”. Vi è l’idea che l’applicazione della legge e la formazione del giudizio nel contraddittorio fra le parti non sia una specie di campo di battaglia nel quale scaricare conflittualità, o il terreno improprio per l’esercizio di un potere autoreferenziale. Vi è la convinzione che pur nella diversità e anche nell’alterità dei ruoli, l’amministrazione della giustizia sia un servizio nei confronti dei cittadini, al quale tutti, ognuno secondo il proprio compito, sono chiamati a concorrere.
Se questa è la base di partenza, non si può pensare che la riforma della giustizia debba risolversi nella mediazione fra pressioni corporative opposte e concorrenti. Tantomeno che essa debba essere “punitiva” nei confronti di qualcuno. Questo nessuno l’ha mai neanche immaginato Chi sostiene il contrario, ha evidentemente interesse ad arginare la forza del cambiamento e a restare arroccato sullo status quo.
Vedete cari amici, vi sono tanti modi di ostacolare una riforma. Ci si può vestire di abiti impropri, come ha fatto un paio di giorni di fa Armando Spataro, affermando in sostanza: “Fate pure la vostra riforma, tanto poi la cancelleremo”. E giudichino i magistrati qui presenti quale pessimo servizio il loro collega abbia reso alla credibilità della categoria.
Lo si può fare in maniera preconcetta, prima ancora di aver visto il testo che sarà sottoposto all’esame del Parlamento, magari perché si siede fra i banchi dell’opposizione e dunque si devono mostrare i muscoli a prescindere.
Oppure lo si può fare in maniera – consentitemi – più subdola, e per questo più insidiosa. Ad esempio, intervenendo a un convegno sull’organizzazione della giustizia e scagliandosi contro misure che nessuno ha mai pensato di introdurre. Perché, vedete, io non sono mai stato fascista. Nondimeno, ritengo impropria l’evocazione che in questa sede è stata fatta del regime fascista, perché altrimenti bisognerebbe tacciare di fascismo importanti democrazie occidentali nelle quali esistono consolidate forme di subordinazione tra l’attività della pubblica accusa e l’indirizzo del potere esecutivo. Ma sfido chiunque a rintracciare una sola occasione in cui il governo o la maggioranza abbiano dato a intendere di voler assoggettare il pubblico ministero all’esecutivo. E’ un’ipotesi che nessuno ha mai formulato. E dunque confondere le acque, parlarne nei termini che abbiamo sentito qui, e farlo alla vigilia di una importante riforma, di certo non contribuisce alla chiarezza e alla serenità del confronto. Neanche se lo si fa in astratto, perché la giustizia italiana di astrattezza sta morendo.
Pensiamo ad esempio a un tema che a Bari è particolarmente attuale, perché tutti ricorderete il grido d’allarme del procuratore Laudati alla fine di quest’estate, sui tanti reati non perseguiti per mancanza di energie disponibili. Mi riferisco al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, al quale il nostro sistema – caso raro e forse unico in occidente – attribuisce rango costituzionale. Nei giorni scorsi si sono registrate importanti aperture – a cominciare da quella del vicepresidente del Csm – sulla possibilità che l’esercizio dell’azione penale, pur obbligatorio, venga disciplinato da meccanismi di fissazione di priorità nella trattazione dei reati. E’ certamente un passo avanti rispetto a quando una proposta del centrodestra finalizzata a colmare questo vulnus fu accolta quasi come fosse un’eresia. Ma credo che in un sistema come il nostro, così sovrabbondante di fattispecie penali, la discussione sarà del tutto libera dall’ipocrisia solo quando si ammetterà che far dipendere l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge da un principio che nella pratica è ormai pressoché aleatorio significa condannare i cittadini-utenti del servizio giustizia a una disuguaglianza cronica: tra le diverse aree geografiche del Paese, tra un ufficio giudiziario e l’altro, tra le sensibilità dei diversi magistrati. Nessun attacco ai principi, dunque, che non intendiamo certo mettere in discussione. Ma un pizzico di laicità e di concretezza in più per evitare, per primi noi legislatori, di fare la fine dei farisei.
Su temi come questo il confronto con gli operatori della giustizia sarà fondamentale. Non solo per la loro preziosa esperienza quotidiana. Ma anche perché fra le finalità che il percorso di riforma si propone, oltre a quella di rendere più equo ed efficiente un servizio per i cittadini, vi è anche quella di consentire alla stragrande maggioranza di magistrati che ogni giorno compie il proprio dovere onestamente, a volte anche eroicamente, senza clamori e tra mille difficoltà, di difendersi da quella minoranza rumorosa di colleghi che nella toga vede uno strumento per conquistare la notorietà, per conseguire posizioni di potere, addirittura per alterare il funzionamento della democrazia, e così facendo infanga l’intera categoria e ne mina la credibilità.
Noi vogliamo mettervi in condizione di sviluppare e attivare anticorpi più efficienti nei confronti di chi dall’interno dei palazzi di giustizia scredita il vostro lavoro. Vogliamo mettervi in condizione di lavorare meglio, e con maggiore serenità.
Vedete, se si viene qui a dire che la priorità di ogni riforma della giustizia è disporre di maggiori risorse, e che il peggior male della giustizia è la sua lentezza, non vi si dice una bugia. Ma a me piacerebbe che oltre a disporre qualche stanziamento in più quando la crisi internazionale e i conti del Paese lo permetteranno, questa maggioranza possa avere l’orgoglio di avere impedito con una riforma strutturale che vi siano magistrati che patiscono carenze d’organico e di strumenti di lavoro, e a pochi chilometri di distanza un pubblico ministero con frenesie politiche possa spendere milioni e milioni di euro in consulenze e ingrassare di tabulati telefonici gli inquietanti archivi di un poliziotto in aspettativa sindacale, per poi vedere i suoi teoremi dissolversi nel nulla o quasi, dopo aver minato la vita di tante persone e addirittura la stabilità di un governo.
Vorremmo poter dire un domani che non è più un’eccezione virtuosa la Procura di Bari che rompendo una spirale perversa ha dimostrato che gli autori delle fughe di notizie si possono individuare e punire. Vorremmo poter dire che non è un’eccezione virtuosa la Procura di Roma, che ha dimostrato che quando si vuole – se veramente lo si vuole – il nome di un politico iscritto sul registro degli indagati può restare coperto dal riserbo fino al giorno della richiesta di archiviazione, e che fra l’iscrizione e la richiesta di archiviazione stessa ci si può mantenere ben al di sotto dei limiti di tempo fissati dal tanto vituperato disegno di legge denominato processo breve.
Vorremmo poter dire che sulla giustizia spettacolo, sulla giustizia politicizzata, sulla legalità come clava ideologica, ha prevalso un altro modello di giustizia e un’altra idea di legalità, che qui a Bari abbiamo visto tradursi in proposte costruttive, in scelte organizzative improntate all’efficienza: penso ad esempio alla proposta di autofinanziamento della giustizia penale attraverso la gestione dei proventi di sequestri e patteggiamenti. E anche in una diversa considerazione del rapporto tra giustizia e informazione: con l’idea che se si ha il coraggio di liberarsi dall’ipoteca giustizialista, l’ineludibile dimensione mediatica possa tramutarsi da mezzo improprio di condanna preventiva a strumento virtuoso per favorire e persino foraggiare una giustizia più organizzata, con ricadute positive sul territorio.
La filosofia è sempre quella dalla quale siamo partiti: l’idea di un servizio giustizia come prodotto del contributo dei diversi attori in campo. E se questo vale a livello “orizzontale”, allo stesso modo l’idea del “fare sistema” deve riguardare la dimensione territoriale, e dunque il rapporto tra amministrazione centrale della giustizia ed enti locali, e fra uffici giudiziari e ambiti geografici di riferimento. Il modello a cui puntare è una sorta di “sussidiarietà” in virtù della quale le esigenze dei territori si compongano in una visione sistemica, e la tentazione del rivendicazionismo ceda il passo a quel bene superiore che è l’erogazione di un servizio quanto più efficace ed efficiente.
Per riferirci ancora alla città che ci ospita, è ad esempio il caso di affermare con chiarezza che il progetto di dar vita a una cittadella della giustizia, responsabilmente avanzato previa valutazione delle implicazioni logistiche, delle ricadute economiche e delle possibili forme di “autofinanziamento” e di risparmio reinvestito, nella nostra scala di proprità viene certamente prima dei conflitti fra i costruttori che lo hanno ritardato.
E quanto al problema delle carenze degli organici, tema particolarmente sentito nelle aree più esposte del Paese, le grida di dolore indirizzate al potere esecutivo avranno molta più incisività se saranno accompagnate, come avviene in questo capoluogo, dalla contestuale e costruttiva elaborazione di modelli organizzativi e sistemi di autofinanziamento, che consentano di ottimizzare l’impiego delle risorse umane e materiali esistenti, in attesa che arrivino tempi migliori e diventino realtà i nuovi concorsi come quello annunciato in questi giorni dal ministro Alfano. Anche su questo fronte, soprattutto dal punto di vista logistico-organizzativo, il contributo degli enti locali può e deve essere fondamentale. E anche su questo fronte l’iniezione di fondi sarà sempre un temporaneo e insufficiente palliativo se non si metterà mano a riforme e modifiche normative che incoraggino comportamenti virtuosi e impediscano sprechi, storture, deviazioni.
Stesso discorso vale per le carceri. Ho visitato quest’estate il penitenziario di Bari, e nonostante la disomogeneità fra le diverse sezioni, la situazione che vi ho trovato è meno scioccante rispetto ad altre zone d’Italia. La struttura è vecchia ma non fatiscente. Ma anche nel caso di Bari – che, ripeto, non è fra i peggiori – laddove il sopraffollamento oltrepassa i limiti della dignità personale le ricadute sono pesanti, sia su chi sconta la pena, sia su coloro che nel carcere lavorano e quotidianamente si confrontano con disagi profondi e gravi difficoltà.
Anche in questo caso è normale e legittimo che allo Stato e alle pubbliche amministrazioni si chiedano più risorse, più interventi, maggiori iniziative di cooperazione. E non è un caso che l’esecutivo abbia posto quella carceraria fra le prime emergenze da affrontare. Ma nel medio e soprattutto nel lungo periodo, qualsiasi misura-tampone sarà destinata a mostrare il suo corto respiro se non si interverrà in maniera incisiva sul sistema giustizia nel suo complesso: immaginando in alcuni casi pene alternative; perfezionando gli accordi con i Paesi d’origine degli immigrati; soprattutto, agendo sui tempi del processo e sulla preoccupante inflazione di uno strumento straordinario come la carcerazione preventiva, per ridurre le schiere di quell’enorme esercito di detenuti in attesa di giudizio che spesso scontano la galera soltanto prima di essere condannati, o, molto peggio, prima di essere assolti.
Cari amici, credo che nonostante l’appartenenza a schieramenti diversi e l’essere avversari vi siano alcuni obiettivi di fondo sui quali chi ha responsabilità pubbliche non può non convergere. E credo anche che se lasciamo da parte per un attimo le ragioni di polemica contingente, siamo tutti d’accordo che nessuno degli ambiziosi interventi di cui la giustizia italiana ha urgente bisogno possa essere conseguito senza il concorso di tutti, enti locali compresi. Se si ha ben chiaro questo, logica conseguenza sarebbe quella di rinunciare alle gare di esibizionismo, ai boicottaggi indiretti dei progetti che magari fanno capo a un’amministrazione concorrente, o ai rallentamenti creati ad arte per aggravare i problemi e poi proporsi come brillanti risolutori.
Credo che al di là di tutto i cittadini si aspettino da ognuno di noi, a qualsiasi parte politica facciamo riferimento, un senso di responsabilità che prescinda dalle contingenze. Negli ultimi mesi le cronache ci hanno raccontato di pazienti abbandonati in sala operatoria perché i medici passavano il tempo a litigare fra loro.
La giustizia italiana è un malato grave: cerchiamo di lasciare le contese fuori dalla porta dell’ospedale, perché quelle contese al malato potrebbero risultare letali. Ne avremo da guadagnare tutti, e soprattutto ne avrà da guadagnare il Paese.
Gaetano Quagliariello, Presidente Onorario Fondazione Magna Carta.