01 Giugno 2012   •  News

Il Quinto Stato non avanza

Redazione

Le recenti inchieste sulle condizioni dell’Italia ci hanno mostrato una realtà politica e sociale che non è nuova ai cittadini italiani appena naturalmente partecipi della comune esistenza nazionale. Va tuttavia sottolineato, tra le manchevolezze del sistema che a più livelli permea la vita della nostra Repubblica, soprattutto il fatto che la nazione è oggi in massima parte guidata da una generazione di fantasmi. Una ristretta gerontocrazia corporativa nella quale si entra – quando si entra, quando si può – nel pubblico e non meno nel privato, soltanto per cooptazione, lasciando ogni criterio larvatamente meritocratico sempre e più frequentemente sullo sfondo. Esiste oggi in Italia un Quinto Stato. Salvo rare eccezioni esso ha soltanto in parte accesso alla proprietà e all’utilizzo dei mezzi di produzione, sia pratici che intellettuali. Come relegato in una sorta di immenso limbo questo Stato è poco o nulla produttivo a ragione della sua condizione di indeterminatezza. Il Quinto Stato è del tutto formato – caso mi sembra completamente nuovo nella storia delle classi economiche e politiche – da giovani tra i venticinque e i trentacinque anni in generale. Esso ha in comune un plurimo livello di scolarizzazione, un originario milieu socio-culturale medio borghese. In altri tempi sarebbe stato l’humus della nazione.

In altri tempi la disoccupazione pratica e intellettuale dei giovani arrivati alle soglie dell’ondata rivoluzionaria in Italia – sul finire del XVIII secolo o al termine della Grande guerra – trovò in Bonaparte e nei convulsi giorni delle occupazioni operaie e del fascismo una drammatica consapevolezza e una tragica legittimazione che all’attuale situazione storica non si profilano coerentemente all’orizzonte (nel male e nel peggio). Guardando al particulare si ha di fronte una condizione di assoluta incertezza. Noialtri braccianti del precariato, cottimisti da ufficio, da officina e della didattica, non siamo utili che a intrattenere clienti-avventizi e dopo molto lavoro ci si disferà di noi come di un paio di calzature fuori moda. Se ci sarà spazio per noi sarà tardi allora – quando forse passeranno entusiasmo e dedizione – troppo stanchi e rancorosi e inaciditi per dare il meglio come potremmo ora.

A che giova il nostro sofferto patrimonio di percettori, possessori di conoscenza? Posti in fondo alla schiera degli utili non siamo altro che i nuovi proletari della società civile, parte di un nuovo Quinto Stato del pensiero. Una classe disponibile resa forzatamente e forzosamente indisponibile, talvolta ingombranti paria teoretici dell’occupazione materiale. «[…] E questo è poco a volte è amaro nulla / eppure si resiste trepidi in attesa», adattando qui le parole significative della giovanissima poetessa Franca Figliolini. Anche noi infine potremmo (dovremmo) davvero chiedere – parafrasando l’abate Sieyès – Che cos’è il Quinto Stato? Nulla. Cosa chiede? Diventare qualcosa.