16 Novembre 2010   •  News

Il Tolkien italiano si chiama Luigi De Pascalis e vive in Abruzzo

Redazione

“Incontri ed esperienze ci sono stati offerti perché avessimo gli strumenti adatti a seguire la rotta. Pensa alle persone che hai conosciuto, alle cose che hai fatto, alle musiche, alle luci, ai colori, agli odori. Sono tutti fili d’Arianna, aghi di bussola: seguili e non ti perderai”. Queste sono le parole di un padre morto, scritte in una lettera e lasciate in eredità al figlio. Il padre si chiama Filippo, il figlio Andrea. Andrea è il protagonista di quel capolavoro di narrativa che è La Pazzia di Dio (La Lepre, 2010) di Luigi De Pascalis, autore abruzzese capace di parlare direttamente ai sensi e all’anima, come già ampiamente dimostrato nel suo precedente Il Labirinto dei Sarra (La Lepre, 2010), recensito su queste stesse pagine nel numero di agosto-settembre.

Non è mai una perdita di tempo spendere due parole sul De Pascalis, al fine di evidenziarne l’alto livello e l’eccezionalità della figura. Scrittore, pittore, uomo dai mille talenti nel 1967 i suoi racconti furono pubblicati nell’antologia americana The Fantastic Swordsmen assieme a quelli di L. Sprague De Camp (che definì il nostro “un Tolkien mediterraneo”), Lord Dunsany, Robert E. Howard, H. P. Lovecraft e M. Moorcock. De Pascalis, che vinse due volte il prestigioso Premio Italia, fu tra i primi, nel Belpaese, a credere nella narrativa fantastica.

Il ciclo della famiglia Sarra (che da generazioni abita a Borgo San Rocco, piccolo paese degli Abruzzi tra la Maiella e il Sangro), di cui La Pazzia di Dio è il secondo volume (si può leggere anche staccato dal primo, sopra citato, di cui consigliamo però vivamente la lettura), è un ciclo narrativo in cui l’elemento del fantastico è presente in maniera peculiare. Ne Il Labirinto dei Sarra il mito classico (rappresentato dal satiro Nereus) emerge dalle brume del tempo a indicare come solo la Tradizione, oggi dimenticata, possa ancora guidare in un percorso di iniziazione e crescita coloro che nella memoria del trascendente ravvisino le proprie radici, l’unica chiave in grado di aprire la mente all’interpretazione reale del mondo. Ne La Pazzia di Dio l’elemento mitico non compare, non si manifesta. Si avverte. In due soli punti del romanzo vi è un richiamo esplicito al misterioso, il primo riconducibile alla superstizione popolare (zi’ Antò, personaggio che si trasforma in sedicente mannaro), il secondo alla “mistica della visione” quando il protagonista, Andrea, s’imbatte nel fantasma del protonotario apostolico Diodato, antenato che fu inquisitore, il cui dipinto s’inclina o addirittura si sposta da solo per la casa all’avvicinarsi di momenti cruciali per la famiglia Sarra.

L’immaginario, ne La Pazzia di Dio, risiede in un mondo tanto più interiore quanto meno viene esplicitato nel testo. E se pure, di facciata, ciò rende il romanzo un diario di formazione essoterica più che esoterica, invero ciò che infine trasmette è proprio l’opposto. La vita di un giovane, passando per traversie concrete e tangibili, è un’iniziazione vera e propria, un processo trascendente. La magia, qui, è interna al carattere dei Sarra, in particolare di Andrea, figlio di Filippo e fratello di Camillo, personaggi non estranei al primo libro. Una magia che nel mondo moderno non trova più luoghi da abitare, né persone che ne comprendano lo spirito, che può definirsi solo mediante l’assurdo. Le parole e i suoni del tempo mitico non si conoscono più, ecco perché quando nel sangue di Andrea scorre feroce il desiderio della scoperta, la fame di esplorare i propri limiti cedendosi completamente all’amore, all’istinto di sopravvivenza, alla ricerca del nucleo primordiale del proprio essere, egli sarà costretto a tradurre con una frase apparentemente insensata il proprio stato d’animo, rivolgendosi al fratellastro Cicco: “Ci’, il cielo sta sopra alle montagne: è così, no? Ma chi può impedire a un sogno d’immaginare una montagna che il cielo, invece che sopra, se lo porta dentro come un sentimento?”.

Ne La Pazzia di Dio Andrea, nato e cresciuto tra monti incantati e ritmi contadini, andrà prima a Napoli, al “collegio degli scarrafoni”, scuola di preti, poi al fronte a combattere la Grande Guerra dal 1915. Innamorato della compaesana Rosa, amore terreno, sessuale, ha nella testa la “Regina di Saba”, la bella Abebath di Zanzibar, vista solo in una vecchia foto del padre, amore sognato, amore ultraterreno come quello dei Fedeli d’Amore (Dante & Co.). Andrea incontrerà molte persone sul suo cammino. Mastr’Alfredo, il “musico scarpàro” di Borgo San Rocco, che gli disse “Nun te fa’ fotte da lu silenzio. La vita è musica. Oppuramente colore. Ma non è silenzio. Mai!”. La bella Rosa, che quando giacerà con lui gli dirà “Le femmine si sciupano in fretta… I ricordi, invece, non diventano mai vecchi. Guardami bene, sopra e sotto, da tutte le parti. Per te voglio essere sempre così”, in una cornice che Andrea ricorderà in questo modo: “Era l’ora meridiana, quella preferita da Pan, l’antico re dei boschi…”. Carmelo Urso detto Polpetta, compagno al collegio di Napoli, che auspicava un ritorno agli ideali risorgimentali e dichiarava “Non siamo tutti uguali… Perché il mio voto deve valere quanto quello di Gennarino o’ cucchiere? Come fa a capire, lui che poveraccio è analfabeta, che … Dietro le belle prediche di certa gente ci sono gli agrari, gli industriali, che quelli come Gennarino se lo magnano…”.

Andrea supererà la guerra grazie al “lupo di Antò”, cioè a quel distaccarsi dagli eventi che altrimenti sconvolgerebbero cuore e mente (una corazza, che solo indossandola poi potrà essere tolta), e infine tornerà a Borgo San Rocco giusto in tempo per l’epidemia di Spagnola che falcerà moltissime vite, comprese quelle dei suoi familiari. In tempo per l’ascesa ufficiale del fascismo. Spagnola e fascismo rompono la serenità bucolica del paese abruzzese, lo sguardo “curioso e quieto” resta quello dei vecchi che sono sopravvissuti ma non è più lo sguardo dei giovani, dell’umanità. La memoria s’è perduta, è morto chi s’era fatto carico fino a quel momento di conservare un certo spirito antico, nessuno più v’è che possa trasmetterlo alle generazioni future. Ma ne La Pazzia di Dio i personaggi e gli incontri indimenticabili sono molti. Il maggiore Baracca e D’Annunzio, per citare quelli storici. Il Riccio, fedele amico di trincea, la bella napoletana Cesira e la “sorella di latte” Mimmina, con la quale forse Andrea si lascerà poi tutto alle spalle, personaggi d’invenzione ma più veri degli altri. Morti i vecchi, i giovani fanno finta di poterne prendere il posto, di assumerne le funzioni, ma ciò non vale per Andrea, sognatore, avventuriero della vita, guerriero eppure anima sensibile e nostalgica. Andrea non vuole essere una goccia nell’acqua di un fiume, il conformismo non fa per lui, lui che un giorno, in un ospedale militare, pensò: “forse quelli come me, che la pancia l’avevano piena dalla nascita, avevano il dovere di fare qualcosa di più che mettere assieme il pranzo con la cena”.

La Pazzia di Dio è un diario, il diario di ogni aristocratico nell’anima, che sogna di comprendere il creato e che legge l’esistenza come un insieme di suoni e di colori che, parlando ai sensi, possono ancora trascinare il pensiero tra le stelle, nonostante guerre ed epidemie, amori infranti e memorie perdute. Nonostante la “pazzia di Dio e degli uomini, compresa la mia”.

(Tratto da Il Borghese – Novembre 2010)