03 Dicembre 2010   •  News

“L’Esperimento Pitesti”. Ecco cosa accadeva in Romania agli oppositori del regime comunista

Redazione

“I detenuti venivano spogliati della loro dignità, personalità e identità umana, religiosa, politica e civile. Soltanto in questo modo, “primitivizzati”, essi potevano rinascere come qualcosa di differente, nello spirito del socialismo reale”. Dario Fertilio, giornalista del Corriere della Sera, descrive così nel libro “Musica per lupi” quanto accadeva ai detenuti di Pitesti, il carcere speciale rumeno destinato alla rieducazione di giovani oppositori del regime comunista.

Dott. Fertilio, perché la scelta di raccontare la vicenda dell’«Esperimento Pitesti» nel libro intitolato “Musica per lupi”?

Lo spunto è nato a Parigi, in occasione di un incontro di Memento Gulag, la giornata che si svolge ogni 7 novembre per ricordare le vittime dei genocidi comunisti e di cui sono ideatore insieme a Vladimir Bukovskij. In quella edizione, promossa da Stéphane Courtois, una relatrice rumena fu la prima a parlarci dell’«Esperimento Pitesti». Colpito dall’episodio e sulla scorta della bibliografia presentata dalla relatrice stessa, ho avviato e approfondito l’inchiesta da cui è risultato il volume. Uno scritto che rievoca in forma romanzesca gli episodi che hanno avuto per protagonisti i detenuti di Pitesti.

In cosa consisteva, quindi, l’organizzazione a Pitesti?

Pitesti fu attivo tra il 1949 e il 1952. La struttura fu pensata per la rieducazione dei giovani oppositori del regime comunista di Bucarest. I detenuti venivano accolti con tranquillità, da principio, e soltanto in seguito sottoposti a persecuzioni inimmaginabili: attuate dai medesimi reclusi che si manifestavano, essi stessi, come carnefici. Le torture inflitte ai prigionieri erano sistematicamente attuate di giorno e di notte, secondo regole precise liberamente affidate all’iniziativa di un gruppo di detenuti guidati da Eugen Turcanu.  

Quali intenzioni perseguiva l’«Esperimento»?

Si trattava di una forma di nazionalismo unito all’ideologia politica, che potremmo senz’altro definire «nazi-comunista». L’obiettivo era creare «uomini nuovi» attraverso la «rieducazione». I detenuti venivano spogliati della loro dignità, personalità e identità umana, religiosa, politica e civile. Soltanto in questo modo, “primitivizzati”, essi potevano allora rinascere come qualcosa di differente, nello spirito del socialismo reale.

L’esperienza di Pitesti è accostabile a quella di altri campi di concentramento della vicina Europa orientale? – Penso soprattutto a Goli Otok, al cosiddetto «Arcipelago Gulag» e ai luoghi di detenzione che hanno connotato i recenti conflitti nei Balcani.

Senz’altro vi sono elementi di contiguità, ma più che incentrarsi sullo sterminio pratico e di massa come nei gulag sovietici, oppure nell’annichilimento etnico-politico della Jugoslavia di Tito e di quella delle guerre balcaniche, l’esperimento di Pitesti mirava allo «smascheramento» – demascare in lingua rumena – dei caratteri del detenuto per condurlo al rinnovamento del quale ho detto. Una rigenerazione che aveva qualcosa di luciferino, poiché conduceva l’individuo – attraverso sofferenze immani, blasfemie e persecuzioni – ad abbandonare il proprio essere per trasformarsi in un soggetto riformato e di conseguenza disposto a praticare tutto quanto gli fosse imposto dalla scienza politica del Partito.

Vedo che Lei insiste sulla metafora “diabolica” dell’«Esperimento».

Certamente. Non soltanto perché i sopravvissuti si sono soffermati di frequente su questa figurazione, ma anche perché a Pitesti le angherie attuate da Turcanu e dai suoi ausiliari sfociavano spesso in messinscene profanatrici che culminavano – soprattutto nei periodi di festività sacre – nella celebrazione di vere e proprie Messe nere.  

La frase posta a capo del titolo è molto suggestiva. Da dove deriva?

Si tratta di una citazione dal Dracula di Braham Stoker, un autore irlandese che non conobbe mai personalmente la Romania, ma che rappresenta una pietra miliare nel suo genere. Quando nelle prime battute del romanzo uno dei protagonisti principali – il giovane avvocato Jonathan Harker – si trova alla tavola del Conte, mentre dal di fuori si ode il latrato dei lupi, quest’ultimo esclama: «Ascoltateli i figli della notte: che musica fanno». Ho voluto consapevolmente stabilire un parallelo tra i carcerieri di Pitesti e la tradizione del vampiro e dell’uomo lupo centro-europea e orientale. Anche loro, come per certi versi queste figure della mitologia, si prefiggevano una nuova nascita delle loro vittime attraverso il supplizio e il dolore. Il lupo, del resto, è un simbolo ricordato anche da Mircea Eliade – il grande antropologo rumeno – nelle riproduzioni totemiche dei Daci, l’antica popolazione indoeuropea storicamente stanziata nell’area a nord del basso corso del Danubio, presso l’odierna Romania. 

Qual è stata la reazione del pubblico italiano al suo scritto?

Il libro ha avuto molto successo in Italia, forse soprattutto per la carica di quanto di più terrificante contiene la vicenda. Superata la repulsione, ne emerge una sorta di cronaca dove è proprio l’elemento dell’orrore, nel senso più profondo, a fare da linea guida, attribuendo all’accaduto una dimensione particolare. Mi spiego meglio: Pitesti rappresenta qualcosa di imparagonabile e unico nella storia del Novecento. Non l’annientamento ideologico e biologico come ad Auschwitz, ma una profonda violenza dell’anima. Non a caso i sopravvissuti parlarono di una forma di satanismo ideologico nelle persecuzioni, qualcosa di accostabile alla messa in pratica del male assoluto.

Come altre sue opere, anche questa veicola certamente un messaggio a favore della libertà. Vuole accennarcene?

La Libertà al singolare, intesa come ideale, e le libertà plurali, come fondamento di un programma morale e di una proposta politica, sono al centro delle mie opere, sia saggistiche che narrative. Ho cercato di esprimerle teoricamente nel saggio Il fantasma della libertà (Rubbettino), narrativamente ne La morte rossa e ne La via del Che (entrambi Marsilio) e persino in forma di favola con Teste a pera e teste a mela (Rubbettino). Probabilmente il valore insopprimibile della libertà si apprezza e comprende a fondo soltanto quando esso viene negato, come nell’esperimento di Pitesti. Le libertà sono anche, per così dire, la ragione sociale del movimento internazionale che ho fondato dodici anni orsono con Vladimir Bukovskij (il sito è www.libertates.com). Ma la libertà è anche uno strumento, oltre che un fine: cioè la condizione imprescindibile per l’affermazione di altri valori come la civiltà e l’amore, la dedizione, il rispetto per la vita, la tradizione e le autonomie individuali.