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Lectio Magistralis.

Fondazione Magna Carta.

 

In Roma, l’11 aprile 2019, presso la sede dell’ Associazione Nazionale fra le Banche Popolari.

 

La storia recente mostra cambiamenti sostanziali nella correlazione internazionale delle forze economiche e politiche su scala globale, imponendo una riflessione sulla riconfigurazione e la riarticolazione del sistema politico mondiale.

Il cuore della crisi mondiale è in Europa.

Fino a quando reggerà quel filo che tiene insieme le nazioni europee senza che la sua lacerazione ripiombi indietro la storia? La riscagli indietro al Trattato di Verdun che segnò la fine del Sacro Romano Impero e aprì la strada alla costruzione faticosissima di un concerto delle nazioni che durò nella storia europea solo un attimo,  dopo l’industrializzazione del continente. Ossia in quel lasso di tempo che Karl Polanyi definì “la pace dei cento anni”: dal 1815 al 1846 la pace fu, infatti, garantita dagli eserciti della “Santa Alleanza” dopo la sconfitta di Napoleone. Una pace che piega  la tempesta sociale dell’industrializzazione grazie al ruolo che allora svolse, a differenza di oggi, quella forza sociale che Maurice Lévy-Leboyer, nel Suo indimenticabile Les Banques européennes et L’industrialisation internationale dans la première moitié du XIXe siècle, del 1964, definì per primo come l’haute finance ; ossia la forza ridistributrice, privata e pubblica che da un lato determinava l’equilibrio di potere delle nazioni che nessuna di esse sfidava e dall’altro forniva i mezzi finanziari per costruire una relativa pace sociale su cui si ergerà il primo esperimento del welfare bismarchiano e delle prime assicurazioni sociali (di cui l’italiana INA fu preclaro esempio nell’età giolittiana): ecco il “Concerto Europeo”, che dalla guerra Franco-Prussiana in poi, determina un equilibrio di potere che nessuno sfida sino alla Prima Guerra Mondiale.

Dal 1815 al 1914 le grandi potenze europee subirono e provocarono solo diciotto mesi complessivi di guerra (la principale è quella tra Prussia e Francia che durò un solo anno), mentre in tutti i secoli precedenti più di metà era trascorso nella guerra. Questa sorta di miracolo era stato reso possibile per Polanyi dall’affermarsi contemporaneo di quattro “istituzioni”: il sistema di equilibrio dei poteri tra Francia, Germania unificata e Regno Unito; la base aurea internazionale (governata da potenti forze sociali e istituzioni dedicate); il mercato capitalistico nascente; lo Stato liberale. In questo contesto la finanza internazionale, completamente autoregolantesi senza infrastrutture sovranazionali di sorta come le tecnocrazie del Fondo Monetario o dell’OECD o dell’UE etc, si strutturò come il legame organico tra l’organizzazione politica e quella economica del mondo. Forniva gli strumenti per il debito pubblico, disciplinava gli Stati, lavorava di concerto con essi e, quando sorsero, si legò alle banche centrali nazionali senza tuttavia dipendere da esse. L’alta finanza era una sorta di “agente sovrano” che godeva della fiducia degli Stati nazionali e degli investitori internazionali”: in questo modo si poteva sempre rigenerare, in caso di crisi, un meccanismo di regolazione tra l’economia e la politica, perché l’omeostasi era un prodotto sociale, non generato artificialmente: le forze di potenza nazionali costituivano con la loro entente cordiale l’equilibrio di queste istituzioni internazionali ”naturali” e funzionali” e impedivano l’entropia del sistema. Questo è invece ciò che accade in Europa oggi, dove il sistema a cambi fissi tramite una moneta unica agisce senza unità politica, senza sistemi fiscali integrati, senza sistemi di welfare concordati, con la sregolazione finanziaria che gioca contro gli stati con la speculazione sul debito invece che lavorare come un tempo alla sua integrazione con gli stati e le loro classi politiche. Di qui la disintegrazione europea a cui stiamo assistendo ogni giorno in una condizione di impotenza, perché le istituzioni europee tecnocratiche non sono omeostatiche e lavorano l’un contro l’altra armate. Di qui il risorgere dello spirito di potenza chiamato barbaramente sovranismo neo-nazionalismo, ecc, a riprova dell’incultura e dell’ignoranza in cui il mondo dei pubblicati e dei pubblicandi è sprofondato.

 

La grande finanza descritta da Polany lavorava, invece, per la pace tra le grandi potenze perché i suoi investimenti di lungo corso si fondavano sulla stabilità, monetaria e politica, in modo tutt’afflato diverso da ciò che oggi accade. Di qui la disgregazione europea e l’impossibilità di ricostruire una entente cordiale europea, sottoposti come si è al ruolo di una finanza che lavora a brevissimo tempo in una gabbia di acciaio che è molto più rigida della base aurea di un tempo, perché predetermina la politica e la circolazione delle stesse classi politiche impedendone la formazione sulla base del consenso in merito alle politiche economiche. Queste ultime, invece, vengono imposte dall’ alto con un pilota automatico, Naturalmente si è scelto quello più astratto e invisibile ai popoli come l’ordo-liberismo che si fonda appunto sul principio inverso della pace polanyana: l’eliminazione automatica e algoritmica del debito con la crescente disintegrazione liberista delle forze sociali e delle forme politiche che si erano con la storia formate sulla base dei bisogni nazionali dei popoli. Esse sono state sostituite, invece, dalle regole che funzionano solo nei casi tedeschi olandesi e scandinavi e che sono storicamente inapplicabili nella parte dell’Europa continentale: francese e italica e del Sud dell’Europa. Di qui la crisi di pressoché tutti i sistemi politici europei: non ve ne è uno che funzioni informe classiche, ossia descrittaci dalla tradizionale scienza della politica: la circolazione delle élite nella poliarchia democratica si è inceppata e si formano solo élite del potere l’un contro l’altra armate. L’impossibilità di formare maggioranze politiche parlamentari in pressoché ogni stato europeo è la conseguenza del processo sino a qui brevemente descritto e non la sua causa, come invece è comunemente detto.

L’Italia non fa eccezione, anzi è il caso immediatamente comprensibile secondo questo modello se si sovrappone a questo ragionamento la disgregazione del sistema internazionale che vede gli USA incapaci di uscire dalla trappola dell’unipolarismo in cui sono caduti grazie all’avvento di una finanza sregolatrice che ha stretto un’alleanza speculativa con le élite del potere cinesi contro le forze militari e industriali dell’establishment nordamericano. La lotta in corso negli USA altro non è che il riflesso di questo processo. Solo una nuova entente cordiale tra USA e Russia può superare l’unipolarismo e la forza spropositata della finanza sregolatrice. Ma per far ciò occorre che il vuoto della politica europea sia colmato ridando al sistema un funzionamento non entropico come l’attuale, riattivando una alleanza organica con gli USA, smontando il pilota automatico della politica economica non regolata dalle forze nazionali che via via trovano un consenso su singoli punti specifici invece che essere dominate da forze impersonali algoritmiche. Il ritorno della politica “buona”, insomma… Cosa che pare oggi impossibile.

I valori dell’Occidente come la democrazia, la libertà, i diritti della persona sono oggi ridiscussi in un nuovo scenario.

Si afferma un’autonomia culturale e valoriale da parte dei paesi del cosiddetto (un tempo) terzo e quarto mondo che completa il processo di decolonizzazione: i soggetti politici emersi dopo la fine del colonialismo europeo rivendicano oggi governance statuali proprie.

 

Ma è proprio la stato a essere in disgregazione o nell’incapacità di formarsi in tutto il mondo.

La destatualizzazione o la non statualizzazione oggi in atto in tutto il mondo è un fenomeno complesso che presenta pochi punti di continuità con le forme storiche di costruzione poliarchica.  Laddove lo stato modernamente inteso si è inverato esso è sottoposto a una deriva che risiede nella assenza di compulsività del concetto di sovranità.

La mia tesi è che tale deriva, da una lato, e l’incapacità costruttiva, dall’altro, siano determinate dalla sempre maggiore interdipendenza nelle relazioni internazionali di quelle forze che via via frantumano gli stati sottraendo sovranità e possibilità di riprodurre e di costruire comunità di destino, senza di cui gli stati non possono esistere.

Le tecnocrazie e le organizzazioni internazionali non suppliscono queste assenze, le inverano anch’esse.

 

Concetto chiave per intendere il processo di destatualizzazione è il neopatrimonalismo di Eisenstadt, che nel 1973 ci avvertiva che la modernizzazione istituzionale non è un processo lineare, ma piuttosto è multipla, alimenta ibridazioni e assorbimenti selettivi dei cambiamenti.

Gli elementi dell’autorità tradizionale (patrimoniale) si fondono e confondono con elementi dell’autorità legale-razionale, così come del potere carismatico pur desacralizzato.

Il punto è che la realtà delle organizzazioni amministrative moderne mostra profili misti: sopravvivenze e combinazioni inaspettate di tratti amministrativi tradizionali e moderni.

 

Il ricorso al concetto di neopatrimonialismo implica, dunque, il rigetto di una visione unilineare della modernizzazione occidentale e il tentativo di trovare nuove categorie in grado di dar conto della complessità del funzionamento delle grandi organizzazioni pubbliche e private nella società contemporanea.

Il rischio di distorsioni è alto, come richiama il riferimento costante a fenomeni deteriori quali nepotismo, clientelismo, corruzione, conflitti di interessi, utilizzo della legge per ottenere privilegi e così via.

 

Negli studi comparati il neopatrimonialismo è stato visto come una variante dei regimi non democratici e di recente è stato riferito all’analisi delle transizioni democratiche e ai regimi ibridi: è stato riferito all’America latina, al Sud Europa, all’Asia e all’Africa.

Per comprendere profondamente ciò che oggi accade, per esempio, in Africa è indispensabile una analisi comparata a largo raggio.

 

 

Esaminiamo alcuni fenomeni topici.

Le nuove forme di conflitto in guerre per le materie prime che destabilizzano gli Stati ricchi di risorse naturali attraverso il loro progressivo impoverimento socio-economico hanno come vittime i soggetti perdenti della globalizzazione.

Si veda il caso delle numerose “guerre ecologiche” nell’Africa subsahariana, base del cosiddetto “patrimonialismo africano”.

Questo tipo di regime comporta che il capo del governo [di norma un presidente] conservi l’autorità attraverso un sistema di patronage o clientelare.

La ricompensa per i funzionari pubblici è la possibilità di appropriarsi delle opportunità offerta dalle istituzioni pubbliche e dal controllo della società (“regime prebendale”).

A partire da questo quadro sintomatico sono state individuate alcune varianti del neopatrimonialismo africano: “dittature personali” (Zaire, Somalia, Malawi, ecc.); “oligarchie militari” (Nigeria, Uganda, Sudan, Etiopia, ecc.); “sistemi plebiscitari mono-partitici” (Togo, Congo, Camerun, Madagascar, ecc.); infine, i “sistemi monopartitici competitivi” (Tanzania, Kenya, Zambia, Capo Verde).

 

 

È oggi chiaro che i protagonisti del revisionismo de-occidentalizzante non sono solo i paesi marginali dal punto di vista globale, ma anche quelli meglio integrati, perché sono alla ricerca di      una propria capacità di attrazione.

 

In Asia un caso emblematico in questo senso è quello cinese costruito sul “socialismo di mercato”, guidato da un sistema politico autoritario, capace però di adattare le proprie istituzioni politiche del nuovo corso globale. In maniera graduale, la Cina si è imposta, passando attraverso forti conflittualità, ben più potenti di quanto accadde nel caso della Russia post-sovietica, come uno degli attori principali della scena economica globale, al di là degli squilibri esterni, dei costi ambientali ed umani e della corruzione.

In effetti quello cinese è un modello orientato al corporativismo autoritario e non a un’effettiva democrazia liberale, come molti stolidi interpreti del rapporto tra “quasi mercato” e liberalismo pensano.

Altro caso degno di nota: l’India, che ha dovuto subire le conseguenze di una profonda mutazione antropologica e sociale dettata dalla globalizzazione.

Il risultato è la nascita di una classe medio-alta numericamente esigua che dispone di enormi ricchezze e di una underclass più estesa e disperata. Il disegno è stato sostenuto e finanziato dalle multinazionali che fanno ottimi affari in India e dispongono di un enorme serbatoio di manodopera a basso costo alla quale si rivolgono per lavori che in occidente peserebbero in misura maggiore sui loro bilanci. L’establishment trans-castale ha scelto di indicare alla popolazione un nemico interno (i musulmani) per far sfogare la rabbia di milioni di indù.

Una strategia che è all’origine dei massacri che si verificano in maniera periodica e mietono vittime nella minoranza religiosa, alimentando poi quel silenzioso conflitto tra India e Pakistan, avviatosi nel 1947 subito dopo l’indipendenza, che costituisce una minaccia costante per la stabilità dell’intera Asia, sfociato due volte in guerra aperta per il possesso della regione del Kashmir, la terra di confine che, a giudizio di molti analisti politici indipendenti, potrebbe dare il via a un conflitto nucleare in tempi brevi in assenza di un accordo.

Anche qui: stato (ossia ciò che rimane della colonizzazione britannica) in disgregazione e in costante riaggregazione incompiuta.

In America Latina, invece, il neopatrimonalismo ha finito per indicare l’evoluzione o il manifestarsi di nuovi paradossi dei regimi liberal-democratici che si sono creati dopo le dittature concluse negli anni ‘80, con intensi processi di “privatizzazione del pubblico” e di “economizzazione della politica”. È il caso dell’ondata neo-liberista, non neo-liberale, che ha travolto il subcontinente nel corso degli anni Novanta, collusa con sistemi clientelari di vendita degli attivi pubblici e la destrutturazione di intere economie in chiave privatistica.

Dalle ceneri di questo processo è sorto il socialismo siglo XXI di chaveziana memoria che ha imposto manu militari un sistema di redistribuzione attraverso le logiche del neo-indigenismo e della redistribuzione delle risorse pubbliche sulla base del periodico alto costo del petrolio.

Il processo, com’è noto, ha toccato tutti i paesi andini e contraddistinto la “svolta a sinistra” dell’Argentina. Partendo dalla presidenza della Repubblica, l’istituzione occidentale e coloniale per eccellenza, il socialismo siglo XXI ha riconfigurato diversi apparati dello Stato in chiave precolombiana, vedi il caso boliviano di Evo Morales.

La recente svolta a destra dell’intero subcontinente, e il crollo del Venezuela militarizzato ha ampliato la forza del tentativo di ri-vertebrazione neo giudiziaria promossa dagli USA con le campagne anticorruzione (l’esportazione ben riuscita ma con protagonisti politici destra diversi da quelli italiani sinistra).

Questo tentativo di ri-vertebrazione non è una ri-statualizzazione ma una superfetazione poliarchica tecnocratica di natura mediatico- democratica, che consegna un quasi stato a una tecnocrazia militare e eterodiretta insieme.

Questo processo, che si sta imponendo in tutte le repubbliche sud americane con un modello sempre simile a quello italiano degli anni novanta del Novecento, pone l’interrogativo su come lo Stato si riconfigurerà di fronte alle nuove sfide economiche, prima su tutte il crollo del sistema economico a forte de-statualizzazione brasiliano, che va incontro a una recessione internazionale di inaudita violenza.

 

Analiticamente è importante, in questa luce, valorizzare quegli studi che, approfondendo il tema della trasformazione politico-istituzionale, spieghino le complesse dinamiche che determinano una scelta volontaria delle élite politiche di riformare il sistema, che rendono possibile una spontanea “de-totalizzazione per esaurimento” delle precedenti forme poliarchiche e che portano alla creazione di spazi sociali, economici o culturali in grado di sfuggire al controllo dello stato, seguendo gli studi di Juan Linz sulla trasformazione delle democrazie.

Certamente questo brano della prefazione di Federico Engels alla geniale opera di Karl Marx Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte è troppo drastico e duro, sottovalutando il ruolo (crocianamente) dello Spirito nella storia, ma bene serve, tuttavia, per inquadrare sociologicamente e antropologicamente il periodo politico che il mondo intero sta attraversando: “Fu proprio Marx, scriveva Engels, ad aver scoperto per primo la grande legge dell’evoluzione storica, la legge secondo la quale tutte le lotte della storia, si svolgano sul terreno politico, religioso, filosofico, o su un altro terreno ideologico, in realtà non sono altro che l’espressione più o meno chiara di lotte fra classi sociali; secondo la quale l’esistenza, e quindi anche le collisioni, di queste classi sono a loro volta condizionate dal grado di sviluppo della loro situazione economica, dal modo della loro produzione e dal modo di scambio che ne deriva. Questa legge, che ha per la storia la stessa importanza che per le scienze naturali la legge della trasformazione dell’energia, gli fornì anche la chiave per comprendere la storia della Seconda Repubblica Francese”.

Ed è ciò che esattamente accade oggi non in Francia, ma in tutto il mondo: disgregazione delle classi medie a reddito fisso impaurite dalla riforma dei regimi pensionistici a cui si stenta a dare riparo e a cambiare, sottomissione di larghi strati di commis d’état a regimi privatistici che li sottopongono alla legge del mercato e alla ricerca continua di un posto di lavoro avendo perso completamente lo status di servitori a vita di uno stato articolato in enti oltreché in pubblici apparati, svalutazione del principio di status per gran parte degli insegnanti sottomessi a regimi di reddito insufficienti per riprodurre la conoscenza didattica e culturale generale e sottoposti alla pressione di famiglie e di direttori scolastici privi di cultura delle relazioni educative. Nella industria manifatturiera la crisi sottopone manager di ogni basso e medio livello all’incubo della disoccupazione in cui si è barbaramente scagliati in non più giovine età ma in età matura, quando non è possibile trovare un’altra occupazione. Discrasia di status tra top manager multimilionari e il ceto manageriale intermedio e i lavoratori non manuali sottoposti a insicurezza di lavoro. Paura crescente serpeggiante tra la borghesia manifatturiera alveolare; le piccole e artigianali imprese per il rischio continua di fallimento in cui incorrono sottoposti a pressioni burocratiche e fiscali asfissianti. La classe operaia è paralizzata dalla paura della disoccupazione e dal regime neo-schiavistico a cui è sottomessa nella maggioranza delle imprese con contratti intermittenti e a tempo breve, sotto una inaudita pressione ideologica e morale che l’ha fatta sprofondare nell’anomia.

Gioventù che non lavora e non studia sprofondata anch’essa nell’ anomia più profonda. La secolarizzazione ha prodotto un neo-paganesimo classista delle “classi alte ecologiche” che ha dilagato nei mondi simbolici di tutti gli insediamenti umani.

Il più volte da me citato capolavoro di Franz Neuman su Angoscia e politica è il testo più importante con quello di Marx per comprendere il moderno planetario dramma.

La crisi per anomia prevale perché si è distrutta la mortatiana costituzione materiale, che non sono i “poteri forti”, come sento dire da imbecilli in ogni dove, dominanti nel pubblicato e nel visualizzato, ma invece i grandi partiti di massa che negli stati fragili sostituivano lo stato medesimo con processi di integrazione benevolente e che promuovevano e sostituivano insieme (di nuovo la sostituzione…) le comunità di destino tipiche dei partiti politici di massa

La reazione degli anni Novanta con distruzione dei partiti di massa avversi alle privatizzazione da globalizzazione subalterna, che dall’Europa si è oggi spostata in America Latina e si sposterà prossimamente in Asia e in Africa, è il frutto dell’emersione universale della poliarchia non democratica ma repressiva via magistratura e via antropologia negativa dell’umano. Va segnalata qui l’eccezione nordamericana, così ben spiegata da Theodore Lowi: essa continua a vedere la riproduzione, nella variante mista di caciquismo proliferante su vastissime aree rank and file, dei partiti di massa.

Si è così dato vita a una divaricazione formidabile degli orientamenti sociali e soprattutto degli universi simbolici delle masse in tutto il mondo

Ortega y Gasset, soprattutto in España invertebrada, aveva bene descritto, profeticamente, la situazione politica attuale del pianeta

Si deve andare oltre la classica dicotomia governanti-governati alla base di ogni organizzazione sociale.

Si è realizzata a rovescio la teoria di Gaetano Mosca delle élites che portano ordine e progresso proprio perché istituzionalizzano l’elitismo come forma di governo politico.

La democrazia elettronica (che si è cercato di inverare recentemente in Congo con esiti tremendi nell’ultimo agone elettorale che ha contrassegnato la fine apparente del dominio della famiglia Kabila) nasconde la realtà del fatto che certo solo una minoranza può guidare la massa.

Ma tale massa canettiana esiste unicamente per essere diretta, influenzata, rappresentata, organizzata dall’alto passivamente? Non è inevitabile. Oggi nel mondo la minoria selecta che secondo Ortega è in grado di sottomettere un agglomerato indifferenziato di individui eterodiretti e di promuovere così la stabilità dell’ordine politico, si presenta invece come servitore del popolo, suo ostetrico benevolente nel mondo dei diritti e crea un formidabile mondo di specchi una volta impadronitosi, come è, di una parte del governo nazionale.

La retorica rosacrociana oggi dominate di chi ha realizzato il plus-valore politico della rappresentanza del popolo degli abissi distrugge giorno dopo giorno con le grida: “onestà! Onestà!” oppure: “tutti ladri” “divieto della prescrizione” e “tutti colpevoli”, quella democrazia realistica che accentua le funzioni direttive di una minoranza governante. Ma ogni giorno emerge che essa, tale minoranza, non è stata selezionata in base al merito piuttosto che al potere, alla ricchezza o alla forza.

È ciò che non si riesce pienamente a inverare in ogni parte del pianeta, questa minoranza, per la violenta trasformazione per via angosciosa dell’hombre-masa, ossia di coloro che dalla solitudine depressiva  traggono la  forza, la  volontà di potenza, generando con la loro apparizione uno dei più clamorosi trionfi del conformismo mediatico, con un declino della civilizzazione paragonabile solo al periodo del Basso Impero, con l’imbarbarimento e l’impoverimento dei costumi, con le lingue nazionali ridotte a una caricatura semplificata dall’adozione universale di una lingua delle scimmie, cosiddetta per la possibilità di apprenderne i rudimenti anche da parte di immensi settori di cognitivamente invertebrati.

E questo genera un isterismo di massa che pervade tanto il popolo degli abissi quanto la borghesia finanziaria e i suoi succedanei di massa: il popolo radical chic delle professioni ex liberali, ecologisti e nutrizionisti fanatici che polemizzano con coloro che sono contrari  ai vaccini e agli idrocarburi fossili con la stessa isteria di questi ultimi e conducono una polemica politica anch’essa angosciosa, confondendo la politica con la carità, la misericordia; così come altri scambiano la iniziativa politica in merito alle questioni delle migrazioni di massa mondiali con il razzismo.

Ma né la carità né il razzismo possono sostituire l’iniziativa politica, soprattutto di governo.

Per Ortega le minoranze un tempo elitarie soccombevano sotto il dominio di un’umanità irresponsabile, viziata, non legata spiritualmente ad alcuna classe sociale, deraciné pour eccellence. Ortega y Gasset vedeva in futuro un’Europa di dispotismi, di omogeneità che annullano le differenze, con conformismo e volgarità dilaganti: un’Europa di barbarie dominata da un’umanità irresponsabile senza memoria storica, che godeva dei prodigi della tecnica senza freni morali.

Oggi l’Europa è il mondo.

L’ unica speranza, seguendo uno dei pensatori che con Gaetano Mosca e Emanuelle Mounier hanno più influito sulla mia formazione spirituale, è quella di far rivivere i partiti storici di massa.

Il governo italiano, per esempio, oggi ne ha uno nel suo seno e solo a esso è affidato il futuro non caciquista e non esoterico di massa dell’Italia. Tra le altre forze di governo spiccano dignitosi esponenti della continuità dello stato il cui leader più illustre è Paolo Savona, il quale rappresenta la grande tradizione liberale italiana.

È solo da una nuova alleanza tra queste due forze (l’una è una forza di massa, l’altra un’anima che non deve perdersi ma continuare a essere la lucerna sopra il moggio secondo il Vangelo secondo Marco, 4,21-25), che si può sperare di scongiurare il dramma che si avvicina.

Certo non sarebbe che l’inizio di una lunga e necessaria rifondazione delle virtù civili che deve condurre a raccogliere, prima che appassiscano per sempre, ciò che è indispensabile per la rifondazione della politica: il lascito delle grandi tradizioni riformiste liberali, cattolico-sociali e socialiste.

Ma leggiamo Marco:

In quel tempo, Gesù diceva alla folla: “Si porta forse la lampada per metterla sotto il moggio o sotto il letto? O non piuttosto per metterla sul lucerniere? Non c’è nulla infatti di nascosto che non debba essere manifestato e nulla di segreto che non debba essere messo in luce. Se uno ha orecchi per intendere, intenda!”.

Se non s’intenderà questa voce, l’ascesa di un Georges Boulanger sarà inevitabile. Ma sarà un Boulanger senza Clemenceau, il quale di Boulanger disse: «La popularité du général Boulanger est venue trop tôt à quelqu’un qui aimait trop le bruit.». Lo stesso Boulanger del quale, allorché si suicidò sconfitto e disperato, sempre lo stesso Clemenceau, grande uomo politico francese e vincitore non solo morale della Prima Guerra Mondiale contro gli Imperi Centrali, disse :

« Il est mort comme il a vécu : en sous-lieutenant. ».

Parole consone per definire coloro che dominano tutto il mondo nei tempi in cui sopravviviamo.